Non mi era mai piaciuto entrare
lì, dove il fiato acido di vino indecente degli avventori si mischiava al fumo
delle sigarette “nazionali” e al fritto di cipolla che veniva da una sorta di
cucina arrangiata in un angolo; non mi era mai piaciuto, ma c’era la
televisione e per noi era un avvenimento poter vedere la partita di calcio e i
teleromanzi: almeno sino a quando il padrone non diceva “la televisione costa;
che faccio ? spengo?” e allora tutti a ordinare un quarto e una gassosa per far
tornare quella sorta di normalità di poveri che sapeva di evasione e di
meraviglia.
E non ho mai saputo cosa succedesse al bar dei ricchi: era un angolo privilegiato, dove vedevi gente soddisfatta seduta all’ombra che fumava e rideva, guardando i passanti e spesso accompagnandoli con battute pesanti. Ma era il bar del gelato, quello buono, e per questo era guardato con desiderio e quando ci si entrava c’era un misto di soddisfazione e di senso di vittoria a “sprecare” 10 lire per un gelato.
Ce n’era anche un altro di bar, ma non rientrava nel nostro orizzonte di ragazzi.
Strana geografia della memoria… anche oggi i bar sono per lo più allo stesso posto, anche se ora gli avventori sono figure della modernità: gente che sorseggia drink e pilucca noccioline, mentre scruta con attenzione il passeggio, giovani che siedono a tavoli ingombri di bottiglie di birra o vecchi che occupano stabilmente le stesse sedie ogni giorno, facendosi scivolare sulla pelle il tempo.
E ancora, i ragazzi, al centro della piazza, anche loro padroni, come un tempo noi, di ogni angolo e di ogni voce, ma col pallone firmato e i giroskate a batteria, scivolando eterei dappertutto.
E la partita a scopa o a tressette forse riunisce ancora quattro giocatori ed otto osservatori attenti, quelli che ti spiegano le tue mosse sbagliate o le alternative che avevi, come se fossero loro i campioni del gioco…quella c’è ancora, magari in second’ordine, anche se più spesso trovi gli scacchi, dove chi guarda non ce la fa a tacere e ti dice cosa fare, e ti dà del cretino mentre afferra il tuo alfiere e lo sposta sulla scacchiera, e lì discussioni infinite con altri campioni che credono di essere Spasskij o Fischer.
E’ cambiata poco la piazza, è ancora la pancia pulsante del mio paese, il luogo principe della socializzazione, dove ancora si discute di donne e politica, di calcio e motori, come se tutto si fosse cristallizzato in un quadro alla Dorian Gray, diverse maschere e stessa natura.
L’eterno ritorno dell’immobile, direbbe il maestro Mimì, e magari ci farebbe un’ultima tirata di fumo tra una risata arrochita e uno sguardo umido di malinconia.
E non ho mai saputo cosa succedesse al bar dei ricchi: era un angolo privilegiato, dove vedevi gente soddisfatta seduta all’ombra che fumava e rideva, guardando i passanti e spesso accompagnandoli con battute pesanti. Ma era il bar del gelato, quello buono, e per questo era guardato con desiderio e quando ci si entrava c’era un misto di soddisfazione e di senso di vittoria a “sprecare” 10 lire per un gelato.
Ce n’era anche un altro di bar, ma non rientrava nel nostro orizzonte di ragazzi.
Strana geografia della memoria… anche oggi i bar sono per lo più allo stesso posto, anche se ora gli avventori sono figure della modernità: gente che sorseggia drink e pilucca noccioline, mentre scruta con attenzione il passeggio, giovani che siedono a tavoli ingombri di bottiglie di birra o vecchi che occupano stabilmente le stesse sedie ogni giorno, facendosi scivolare sulla pelle il tempo.
E ancora, i ragazzi, al centro della piazza, anche loro padroni, come un tempo noi, di ogni angolo e di ogni voce, ma col pallone firmato e i giroskate a batteria, scivolando eterei dappertutto.
E la partita a scopa o a tressette forse riunisce ancora quattro giocatori ed otto osservatori attenti, quelli che ti spiegano le tue mosse sbagliate o le alternative che avevi, come se fossero loro i campioni del gioco…quella c’è ancora, magari in second’ordine, anche se più spesso trovi gli scacchi, dove chi guarda non ce la fa a tacere e ti dice cosa fare, e ti dà del cretino mentre afferra il tuo alfiere e lo sposta sulla scacchiera, e lì discussioni infinite con altri campioni che credono di essere Spasskij o Fischer.
E’ cambiata poco la piazza, è ancora la pancia pulsante del mio paese, il luogo principe della socializzazione, dove ancora si discute di donne e politica, di calcio e motori, come se tutto si fosse cristallizzato in un quadro alla Dorian Gray, diverse maschere e stessa natura.
L’eterno ritorno dell’immobile, direbbe il maestro Mimì, e magari ci farebbe un’ultima tirata di fumo tra una risata arrochita e uno sguardo umido di malinconia.
Bravo Peppe!
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