sabato 26 maggio 2018

CURIOSITÀ GIOVENALIANE di Tommaso Di Brango


Tutti ricordano che il primo, vero successo editoriale di Marco Travaglio fu L’odore dei soldi. Origini e misteri delle fortune di Silvio Berlusconi (Roma, Editori Riuniti, 2001), un libro scritto a quattro mani con Elio Veltri. Nessuno o quasi, però, sa che il titolo di quel fortunatissimo volume deriva, almeno in parte, dal verso 204 della Satira XIV di Decimo Giunio Giovenale, poeta aquinate vissuto a cavallo tra il I e il II secolo dopo Cristo. È lì, infatti, che si legge: Lucri bonus est odor ex re qualibet (“L’odore dei soldi è gradevole da qualunque cosa provenga”).
La cosa, ovviamente, non deve sorprendere. Il linguaggio della satira - soprattutto se aspra, virulenta e sentenziosa come quella giovenaliana, assai distante dalla aurea mediocritas di Orazio - si sposa assai agevolmente con le esigenze della polemica politica. Quel che però suscita un certo stupore è la frequenza con cui le acrobazie linguistiche di Giovenale hanno fatto breccia nell’immaginario collettivo, diventando addirittura modi di dire proverbiali.
Una delle frasi più frequentemente ripetute all’indomani delle varie tornate elettorali italiane, ad esempio, è quella secondo cui “al popolo bisogna dare panem et circenses”. Il più delle volte, infatti, l’estensore di simili - e non per forza errate, ahinoi - considerazioni non sa di star citando il verso 80 della Satira X di Giovenale (Panem et circenses tantum populus optat: “Il popolo desidera soltanto pane e giochi del circo”). Né d’altro canto si esaurisce qui il contributo fornito dalla Satira X al nostro quotidiano comunicare, perché in essa, al verso 356, si legge: Orandum est ut sit mens sana in corpore sano (“Dobbiamo pregare di avere una mente sana in un corpo sano”). Quante palestre hanno fatto - pedestremente - uso di questa considerazione giovenaliana allo scopo di darsi un’aura colta? Se poi ci si rivolge alla famosa - e per certi aspetti famigerata - Satira VI, ovvero quella “contro le donne”, si ha modo di imbattersi, al verso 347, nel celeberrimo interrogativo: Quis custodiet ipsos custodes? (“Chi controllerà i controllori?”). 
La sorte di Giovenale, insomma, è stata quella di chi dona senza dar notizia della sua generosità. C’è da augurarsi, però, che nel tempo si riesca ad avere contezza dell’importanza da egli avuta non solo per la storia della satira latina e occidentale, ma anche per le nostre parole di tutti i giorni.

giovedì 17 maggio 2018

SAN TOMMASO “SEQUESTRATO” di Costantino JADECOLA

Per Aquino la voce aveva cominciato a diffondersi con la celerità propria di certe notizie ‘piccanti’: “Vogliono portarsi San Tommaso a Sora!”.
Ma anche a creare qualche preoccupazione: “Va a finire che non ce lo ridanno più!”
Una variazione sul tema, del resto, dava per scontato addirittura una vendita del Santo da parte del clero locale. E, a peggiorare la situazione, provvide quella ‘voce’ secondo cui “Cicchètte”, al secolo Tommaso Treta, di professione falegname, stava approntando una grossa cassa da utilizzare per il trasporto del Santo.
Ovvero della statua del Santo, perché era di questa che si trattava.
All’origine naturalmente c’era un motivo ben preciso: nel centenario della canonizzazione del Santo di Aquino, il vescovo del tempo, mons. Antonio Maria Iannotta, aveva indetto un Congresso Eucaristico Interdiocesano, da tenersi a Sora per la fine di agosto del 1924, al quale era associata la commemorazione dell’Angelico dottore.
Anche se si trattava di una vacanza piuttosto breve, la cosa non andò per niente a genio a una parte degli aquinati i quali, forse perché non erano stati opportunamente informati sull’iniziativa o, piuttosto, per via di una naturale diffidenza, si misero all’erta in attesa dell’evolversi della situazione. Cosicché quando si seppe che la cassa era pronta e la spedizione della statua stava per concretizzarsi ci fu una mezza sollevazione popolare, affermano le fonti che ricordano l’episodio, totalmente orali, che si concretizzò addirittura nel ‘sequestro’ della statua stessa la quale, per precauzione, venne collocata nella piccola chiesa dedicata a San Magno, «di patronato della famiglia Frezza» (Pasquale Cayro, Storia sacra e profana/2, pag. 23), allora esistente nell’attuale via Cavour, poco più avanti del seminario.
Intervennero ovviamente anche i carabinieri. Ma non riuscirono a fare più di tanto. Anzi, raccontano le stesse fonti, uno di essi venne addirittura disarmato da una donna del popolo la quale, mostrando poi la pistola al suo legittimo possessore, gli disse che non era proprio il caso di utilizzarla. Anzi, tutt’al più, se proprio voleva usarla, se la doveva mettere in quel posto: sta di fatto che il povero carabiniere dovette penare un bel po’ prima di rientrare in possesso dell’arma ed evitare così guai peggiori.
Così la grande statua di San Tommaso rimase “sotto sequestro”. Semmai, dissero i “contestatori”, a Sora si può sempre portare l’altra, quella a mezzo busto, cioè, che, oltre tutto, è anche più antica e dunque più pregevole.
Ma, ovviamente, questo ‘suggerimento’ non venne recepito e si optò così da parte del clero per la statua del Santo venerata a Roccasecca la quale trasse il suo quarto d’ora di celebrità da quello che, secondo mons. Crescenzo Marsella (I Vescovi di Sora, pag. 284), fu un grande evento. Egli, infatti, scrive che «sette eccellentissimi vescovi e l’eminentissimo cardinal Legato Camillo Laurenti, inviato speciale del Papa, intervennero a Sora il 29, 30 e 31 agosto 1924 per celebrare le feste dell’Agnello divino e dell’angelo delle scuole. Ricordo ancora», riferisce sempre mons. Marsella, «quella selva di bandiere e d’insegne sotto i raggi d’oro del tramonto estivo, che si spiegava per le vie di Sora, la povera città distrutta dal terremoto. Era una falange fiorente di gioventù e di vita, un corteo interminabile di associazioni cattoliche, di confraternite schierate che incedevano al canto festevole degl’inni e dei salmi con tutti i parroci e i sacerdoti convenuti dai paesi delle tre diocesi, seguiti dai vescovi, dal cardinale, dalle autorità, da un’immensa fiumana di popolo».
C’è da supporre che ad Aquino la cosa fece né caldo né freddo. Anzi, il popolo ‘contestatore’, felice di aver evitato al buon “Tomasone” quella vacanza sorana che si riteneva piena di rischi, celebrò l’evento di cui si era reso protagonista addirittura elaborando una canzoncina che faceva grosso modo così: “Gl’arciprevete d’Aquine/ s’àve arraiate pe gli quadrini. / Pè gli quadrini e pè gli denari / s’anne ‘mpegnate Sante Tumase/”. Eccetera, eccetera, eccetera.

mercoledì 9 maggio 2018

IL PRIMO GIORNO di Peppe Murro

Non che non ce la facesse, in fondo era sì, magro, ma tutta forza e giovinezza: fosse stato alto come il fratello sarebbe stato davvero quello che si dice un fusto… Era piccolino, però, più o meno la stessa statura della madre, bassina e magrissima pure lei.
Eppure quella aveva una voce che si sentiva fino alla piazza: “sbrichet a camminà; movete ca è tard..cammina, sfaticat”.
Sì, ce la faceva ad andare più veloce, ma non ne aveva nessuna voglia: d’altronde quale ragazzo sarebbe stato contento di lasciare i giochi per andare a lavorare ?!
La madre, però, era stata irremovibile: “viste ca de legg e scriv nen te ne tè, almen te mpare nu mestier” ed aveva pregato il calzolaio di prenderlo come garzone.
“Cammina, movete”, il grido di sua madre dal basso della discesa gli diede quasi un’altra spinta.
 “E statt attent a nen cadì”. No, non sarebbe scivolato su quella salita, anche se le pietre erano lisce di pioggia: aveva buone scarpe, fatte di pelle indurita dal non avere scarpe.
Arrivò davanti ai gradini che portavano alla bottega di Ntonie spavent, il calzolaio, si voltò indietro: la madre era una cosa piccina in fondo alla discesa, una cosa che continuava a gesticolare in maniera terribile.
Forse sospirò, guardò davanti a sé e prese a salire quelle scale sulla sinistra con un certo timore: lì abitavano i signori e bisognava mostrare rispetto. Lui però doveva andare dal calzolaio, si drizzò allora sulla schiena, salì due gradini e disse con voce stentorea: “Bongiorn”.
Una vecchia monumentale spostò la tenda, gli fece quasi un sorriso: “Entra; tu sì Pepp gliu zingareglie, è ver?”. Fece di sì con la testa ed entrò: la prima cosa che lo colpì fu il profumo dei fagioli che cuocevano in una pignata ai lati del camino. Girò la testa e vide due occhi bonari che lo guardavano da sotto un ciuffo di capelli bianchi.
Il calzolaio era seduto su una panca bassa di fronte a un piccolo tavolo pieno di arnesi, fatto con dei bordi perché non cadessero. “Mama m’ha fatt venì”, disse come per scusarsi di stare lì.
Il vecchio sorrise, lo squadrò per bene e poi: “Sper ca te ne tè de te mparà…sta qua è meglie de nen fa nient”. A quelle parole Peppe pensò: “Ca le dice tu, pecché te si scurdate come è beglie giucà a pallone!”, ma non fiatò.
“Vabbè”, continuava il vecchio,” je nte garantiscie de te pagà, ma nu piatt de minestra pe te qui nen mancherà mai. Adduman po’ cumencià.”
Non gli riuscì di sapere chi o cosa gli diede tanto coraggio, ma in un lampo di geniale facciatosta disse: “Zi mastr, vabbè ca cumencie addumane, ma viste ca oggie so’ venute, pozz restà a magnà?”

sabato 5 maggio 2018

IL GIORNO CHE INCENDIARONO LA SCUOLA di Paolo Secondini


ll giorno che incendiarono la scuola è un romanzo breve, incentrato sulle esperienze di un insegnante di italiano e storia alle prese, quotidianamente, con i propri alunni.
Quest’ultimi appaiono poco disposti (salvo eccezioni, ovviamente) allo studio e al lavoro scolastico, poco motivati ad ascoltare le lezioni e a trarne profitto; molto propensi, invece, a interessi a volte bizzarri, stravaganti, ma certamente più veri e consoni al loro animo.
Ispirato a fatti del tutto veri, accaduti in vari istituti di istruzione secondaria di II grado (nei quali l’autore ha insegnato per anni), il romanzo narra vicende ora drammatiche, ora allegre, ora tristi, ora assurde, ora bizzarre, ora impossibili… ma sempre soffuse di una sottile ironia; vicende che hanno unicamente come scenario la scuola e, in particolare, l’aula con i banchi, le carte geografiche, la cattedra e, soprattutto, le pareti imbrattate di scritte, disegni, graffiti.
I nomi degli alunni sono fittizi; reali, invece, i loro comportamenti, le loro manie, il loro modo di essere… le loro piccole grandi storie.

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