venerdì 31 marzo 2017

LE PIGNE PASQUALI di Rita Di Sotto

Della Pasqua della mia infanzia ricordo ancora il profumo fragrante delle pigne appena sfornate: profumo di anice. Non vi era famiglia, ad Aquino, che per la Pasqua non preparasse questo dolce tipico. Ricordo che nella mia il compito di fare l’impasto spettava a mia madre, ma sotto la supervisione di nonna, che di esperienza, in fatto di dolci, ne aveva parecchia. E di esperienza ne occorreva davvero tanta, perché anzitutto era necessario stabilire quando impastarle, le pigne.
Essendo un dolce dalla lievitazione molto lenta, bisognava tener conto del clima, che ogni anno era diverso. Pertanto, se ancora faceva un po’ freddo, la lievitazione richiedeva un tempo maggiore rispetto a quando la temperatura era più alta.
Si procedeva, quindi, con il predisporre gli ingredienti, prima fra tutti il lievito, che andava preparato con dodici ore di anticipo. Si passava, successivamente, all’impasto vero e proprio, servendosi di uova, zucchero, aromi vari, tra cui quello di anice, in forma di semi o liquore.
La cosa più difficile era lavorare energicamente l’impasto battendolo a lungo, in modo che incorporasse più aria. All’interno di una pentola capiente, lo si poneva in una madia o cassapanca, avvolto in una coperta di lana – quasi fosse un neonato – per ripararlo da spifferi.
Cominciava, da questo momento, un rituale che a me sembrava incredibile. A intervalli di qualche ora, nonna e mamma sorvegliavano la lievitazione, e lo facevano aprendo piano lo sportello della madia, a volte sembrava che trattenessero il respiro, tanto stavano attente a non provocare il minimo spostamento d’aria che avrebbe potuto pregiudicare la crescita dell’impasto. Poisollevavano adagio i lembi della coperta, e infine alzavano il coperchio della pentola.
Io non riuscivo a capire che cosa vedessero, e trovavo assai strano che mamma e nonna si abbandonassero a certe discussioni: per esempio se era il caso o meno di accelerare la crescita, mettendo nella madia un recipiente con acqua calda.
Finalmente, quando l’impasto aveva raggiunto il punto ottimale di lievitazione bisognava intavolarlo. In sostanza significava che esso doveva essere preso delicatamente e distribuito in teglie imburrate. Ma non finiva qui! Bisognava ora che le teglie, riempite per metà, fossero messe di nuovo nella madia per la seconda lievitazione.
Aveva inizio lo stesso rituale di prima, e io, come prima, assistevo alle stesse operazioni di mamma e nonna, alle stesse discussioni sui tempi e i modi di cottura delle pigne.
Alla fine, mentre questa avveniva, l’aria si impregnava del buon odore di anice, mentre nonna preparava la glassa che doveva essere spalmata sulla superficie delle pigne appena sfornate, assieme a una buona dose di confettini colorati.
Nel sentire mamma e nonna scambiarsi i loro pareri: “Mi sembrano cotte” o “Dovrebbero stare in forno un po’ di più”, pensavo al giorno di Pasqua, quando quel dolce sarebbe stato gustato.

mercoledì 29 marzo 2017

LAVORO A GIORNATA di Tommaso Di Brango


Alla fine le sigarette arrivarono. Lavorare a giornata dagli Sfangari non gli consentiva di fare chissà che lusso, ma al fumo non avrebbe rinunciato. Passava la giornata insieme agli altri a scavare per le fondamenta della casa colonica da costruire nelle campagne al confine con Castrocielo: senza sigarette sarebbe impazzito.
Suo fratello non vedeva molto di buon occhio quest’impiego e avrebbe preferito di molto se si fossero unite le forze per mettere in piedi una ditta di muratura. Vivevano insieme nella vecchia casa dei genitori in via Scacchi, vicino alle Pentime: quindi ne parlavano spesso. In fondo, diceva il fratello, la differenza tra il lavoro in proprio e quello sotto padrone sta nel dover rispondere o meno ai comandi, perché il guadagno è grossomodo lo stesso e a fine giornata si arriva comunque con la schiena rotta.
«Questo finché si è soli», replicava lui. «Quando però si mette la ditta è come stare sotto padrone, perché i soldi non sembrano mai abbastanza a nessuno e poi si inizia a litigare».
«Perché con gli Sfangari invece non ci litighi? Meglio litigare con loro che con me?»
«Sì Giusè! Sì! Perché se San Tommaso me lo fanno perdere loro gli faccio un buonanotte a signoria e chi s’è visto s’è visto: ma se me lo fai perdere tu è capace che litigo con mio fratello e questo non deve succedere».
«Ma che litighiamo io e te? Sì, si può discutere: ma che caspita, ci si accorda alla fine!».
«No, Giuseppe. I soldi fanno disconoscere la mamma e il padre. Poi, col tempo, non saremo più nemmeno solo noi due. Dovremo prendere moglie prima o poi? È un po’ che i trent’anni se ne sono andati! Quindi non siamo solo io e te che ci dobbiamo accordare».
«La moglie uno deve sapersela tenere, sennò meglio che non si sposa proprio».
Questa discussione si ripresentò un giorno sì e l’altro pure fin quando Giuseppe non venne fulminato da una notizia. Rimase immobile per una buon mezz’ora, manco si stesse sentendo male.  

lunedì 27 marzo 2017

IL TEMPO DELLE FAVE di Vincenzo Pelagalli



In principio fu, forse, una promessa; un impegno verso un vivo o verso un morto; forse, fu un lascito, un legato che gravava su una certa proprietà o un mezzo per ricordare un caro estinto. Forse, fu tutto ciò messo insieme. Ma ormai era diventata una tradizione, perché l’origine e il significato si son perduti nel corso degli anni.
Quanti anni? Cento, duecento, forse anche più.
Nessuno ha saputo dirmelo. Neanche i Pelagalli che di questa tradizione sono stati gli iniziatori: hanno sempre cotto le fave all’alba del giorno dei morti, perché così hanno visto fare dai loro genitori e dai loro nonni.
Le fave dei Pelagalli sono entrate nelle nostre case e tutti ne abbiamo mangiato. Nessuno si sentiva offeso da quelle scodelle, nessuno si sentiva umiliato, al contrario, restava deluso chi, per un motivo o per un altro, non riusciva ad averle.
Fave e pane rosso per tutti: le stesse fave e lo stesso pane sia per i don sia per gli umili; unica differenza era che questi andavano a prenderle, quelli le ricevevano in casa.
Davanti a quelle fave e a quel pane rosso tutte le porte e tutti i portoni si aprivano; anche quelli che con i Pelagalli potevano avere qualche momentaneo motivo di attrito.
Ricordo la confusione e il baccano che avveniva davanti al cancello del cortile dove si cuocevano le fave, ma ricordo anche il silenzio e la compostezza di tutti, quando il cancello si apriva e si iniziava la distribuzione.
C’era chi le mangiava lì, in un angolo del cortile; ma molti portavano a casa la scodella piena per dividerla con i familiari e per stiparne un po’, per devozione, come si diceva allora, a quei parenti che sarebbero venuti da fuori per l’annuale visita al cimitero.
Quelle fave erano per tutti gli aquinati quasi un rito, una specie di comunione generale che li accomunava, qualcosa che concretizzava una componente della spiritualità della nostra gente.
Ma le fave dei morti non si cuociono più, ormai tutto è finito. E non per colpa dei Pelagalli che ancora, anche se in altro modo, assolvono al loro impegno. Non è nemmeno colpa degli aquinati: tutto è finito perché sono altri tempi.
Altri tempi solo in apparenza più facili di quelli andati, ma in realtà più duri. Più duri perché questa civiltà consumistica, dissacrando ogni cosa e abbattendo ogni mito, consuma financo il suo artefice, non lasciandogli più il tempo di sostare per guardare attorno a sé e, quel che è più grave, dentro di sé.
Noi vorremmo le fave dei morti, per tornare a guardare dentro di noi.

domenica 26 marzo 2017

C’ERA UNA VOLTA LA PACCHIANA di Paolo Secondini

                                                     PAOLO SECONDINI: La pacchiana (dipinto a olio)
 
Certo che di anni ne sono passati dall’ultima volta che si è vista, per le strade d’Aquino o della campagna circostante, la pacchiana, con addosso abiti tradizionali: semplici, dai colori scuri o vivaci; con in testa, solitamente, un fazzoletto bianco inamidato e, sulle spalle, uno scialletto nero o variamente decorato.

venerdì 24 marzo 2017

UN RICCIO TRA LE MACERIE di Tommaso Di Brango


Gettò uno sguardo su quel che rimaneva della Madonna della Libera ma la cosa non gli diede alcuna emozione. Non era più un ragazzo quando se n’era andato da Aquino, ma nonostante fossero trascorsi appena cinque anni adesso si sentiva un Matusalemme. Ripensò alla Grecia e ai campi in Germania. Gli venne voglia di fumare.
Voltò le spalle alla chiesa e vide solo terra smossa ed erbacce di fronte a sé. I suoi genitori se n’erano andati prima della guerra e, malgrado avesse trentatré anni suonati, non si era mai sposato e non aveva figli. Di quel che il su mondo era stato prima del 1940 rimanevano soltanto lui e suo fratello, mentre quel che sarebbe diventato stava in quella terra smossa e nelle macerie delle case da ricostruire. In quel momento, però, voleva solo fumare, anche se sapeva che trovare una sigaretta ad Aquino sarebbe stato impossibile.
Cominciò a camminare nervosamente. Si allontanò dai resti della chiesa e andò in direzione della scalinata antistante, anch’essa diroccata. Pensò che avrebbe dovuto cercarsi un lavoro e che non poteva permettersi il lusso di guardare troppo a lungo le macerie. Considerò anche, però, che non gli sarebbe stato troppo difficile, perché i caporali si recavano in piazza tutte le mattine a reclutare sfaccendati per i padroni. Gli sarebbe bastato farsi trovare sul posto il giorno seguente, tanto più che in paese era noto perché prima della guerra aveva fatto il muratore.
Questo pensiero gli diede una sorta di brivido. Si sedette sui resti della scalinata e, voltando la testa sulla sua sinistra, vide un riccio che camminava nell’erba. Lo guardò negli occhi e pensò che ce l’avrebbe fatta anche stavolta.

mercoledì 22 marzo 2017

LE RANE di Paolo Secondini



Avevo quindici anni quando l’amico, più grande di me, un giorno mi chiese – lo ricordo assai bene – se volevo andare con lui giù al pantano a sentire le rane gracidare.
La proposta mi piacque. Accettai.
C’inoltrammo nella campagna per una stradina bianca e polverosa che, inondata dal sole, pareva brillasse come cosparsa qua e là di grani di sale.
Nel frattempo noi si parlava di scuola, di compiti a casa, di interrogazioni, di questo e quell’altro professore. Frequentavamo l’Istituto Magistrale: stesso corso, stessa classe. Lui aveva ripetuto due volte: per questo motivo si trovava con me ancora in seconda.
Discorsi oziosi, i nostri, fatti, mentre si andava, per rendere meno noioso il tragitto. Il pantano era distante dal paese.
Dopo qualche tempo, a una svolta della stradina ci ritrovammo in cima a una scarpata – verde d’erba, leggermente ondulata, con alberi da frutto, credo meli cotogni e gelsi: se ne vedevano spesso nelle nostre campagne (oggi quasi scomparsi) –, che scendemmo a scavezzacollo come due matti, rischiando di ruzzolare e farci male.
Giungemmo presso una distesa d’acqua stagnante, da cui saliva un gracidio monotono e lamentoso, che a momenti cresceva d’intensità per affievolirsi di colpo, per poi crescere ancora, per affievolirsi di nuovo e così via.
Di rane, sebbene volgessi la testa intorno, non riuscivo a vederne neppure una, ne sentivo soltanto il tonfo nell’acqua man mano che camminavamo lungo la sponda del pantano. Ma il mio amico – a quanto mi parve – era capace di scovarle fra l’erba e le canne, di cui vi era una grande abbondanza.
A un tratto lo vidi trarre di tasca un groviglio di ferro filato, districarlo velocemente e cingerlo attorno alla vita a mo’ di cintura. Lì per lì non compresi che cosa volesse farne. Mi fu chiaro più tardi allorché, afferrata una rana (dopo avere tuffato la mano nell’acqua), la infilò ancor viva, per la zampetta, nel filo di ferro.
Dopo un po’ altre rane subirono identica sorte.
Che orrore!
Che pena!
Non dissi – tutto il tempo che catturò i piccoli anfibi per infilzarli e stringerli insieme: perle animate di una ben triste collana – una sola parola, angosciato da quella visione.
Ritornammo al paese dopo un bel pezzo, io ancora in silenzio, frastornato; lui, al contrario, ciarliero e felice, col suo ricco bottino gracidante.
Allora mi parve crudeltà, la sua: una grande, orribile crudeltà…
Ma molti anni dopo, riandando con la mente a quel giorno, mi resi conto che era soltanto una grande e orribile fame quella del mio amico, figlio di povera gente. E più che lui – pensai – crudele, sicuramente, era il destino.

martedì 21 marzo 2017

MIA MADRE di Vincenzo Pelagalli


 
Aquino, 2001
Durante una delle nostre chiacchierate, Peppino Maiello mi disse di avere un vecchio film girato, durante il pellegrinaggio (a Canneto) del 1967, con una cinepresa amatoriale e già trasferito su una video cassetta; gli dissi che desideravo vederla perché poteva interessarmi. Mi assicurò che l’avrei trovata senz’altro interessante, certamente dal lato affettivo, perché, mi precisò, a quel pellegrinaggio aveva partecipato anche mia madre, cosa che, francamente, non ricordavo.
Peppino, da persona squisita qual è, ha fatto di più di quanto gli avessi chiesto: ha fatto la cassetta e me l’ha regalata.
Avutala tra le mani sono corso a casa, l’ho infilata nell’apparecchio e ho aspettato con trepidazione le immagini. Sono immagini a volte sfocate, sbiadite, e un po’ accelerate, ma per me e molti aquinati sono bellissime, perché sono parte della nostra storia personale, familiare, comunitaria.
Avevo gli occhi sgranati sul televisore aspettando di vedere mia madre che è apparsa, almeno così mi pare, per un attimo (se si potesse, direi un attimino) mentre camminavano alla spicciolata; poi, l’ho vista sfilare in processione, e per più di qualche secondo, tra le canterine soliste, quelle che intonano le strofe.
Ho provato una vivissima emozione, che è diventata commozione, quando ho capito che quello è stato per mamma il suo ultimo pellegrinaggio, e da questo film ho appreso che, quando era in Compagnia, faceva parte del gruppo delle canterine soliste.
Prima e dopo è sfilata avanti a me una lunga teoria di volti noti o cari, volti che incontro ancora per le nostre vie, anche se lo scorrere degli anni li ha resi diversi, e volti cari, oltre a quello di mia madre, che non posso, né potrò incontrare se non nella pace di Dio.
Le vicende della vita non sono state tanto tenere con mamma e non le hanno consentito, ora per un motivo, ora per un altro, di andare in pellegrinaggio ogni volta che lo desiderava; di questo soffriva tantissimo, ma, anche quando non andava, il suo pensiero e il suo cuore erano con gli altri su quelle strade a cantare l’Evviva Maria!

lunedì 20 marzo 2017

I PANICELLI DI SAN GIUSEPPE di Costantino Jadecola



Anche se sono decenni, ormai, che quella tradizione non esiste più, tuttavia, chi è più avanti negli anni la ricorda ancora; chi, invece, si è affacciato alla vita in epoche più recenti la ignora del tutto. Ed è anche per questo che, forse, è opportuno ricordarla.
Si parla dei “panicelli”, o “panicèglie” che dir si voglia, ovvero i piccoli pani che, a coppia, venivano distribuiti per iniziativa della famiglia Capozzella in tutte le case di Aquino il giorno della vigilia di San Giuseppe, il 18 marzo. Realizzati con la farina bianca, all’epoca privilegio per pochi, con lo stesso procedimento del pane “fatto in casa”, la loro preparazione richiedeva l’apporto di una consistente mano d’opera dovendosi lavorare oltre un paio di quintali di farina: vi partecipavano, infatti, almeno sei, sette persone, che iniziavano la preparazione già il 15 marzo per concluderla, con una serie di “fornate”, all’alba della vigilia della festa di San Giuseppe. Quel giorno, infatti, ma solo dopo che i pani erano stati benedetti, incaricati della famiglia Capozzella, servendosi dei classici canestri di vimini, provvedevano alla loro consegna al domicilio di tutte le famiglie di Aquino, nessuna esclusa. L’attesa era grande: era il pane di San Giuseppe. Ma, soprattutto, era pane bianco. E quelli erano tempi solo di pane rosso.
La tradizione, però, non si esauriva con la distribuzione dei “panicelli”. I beneficiati, infatti, lo consumavano a pranzo ma solo dopo aver compiuto un ulteriore, piccolo rito: una volta che i pani erano stati divisi in tante parti quanti erano i componenti il nucleo familiare, prima di consumarlo ognuno baciava il pezzo che gli era toccato e, quindi, si segnava.
Sull’origine dell’iniziativa, conclusasi agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, pare che essa debba mettersi in relazione con un voto fatto da un sacerdote della famiglia Capozzella, certo don Alessandro, che, in un’epoca imprecisata, probabilmente nel 1700, di ritorno da un viaggio in Terrasanta se la dovette vedere piuttosto brutta perché la nave su cui viaggiava incappò in un violento nubifragio tant’è che la speranza di venirne fuori incolume sembrava davvero ridotta al lumicino. Poi, però, la situazione volse al meglio anche per via delle molte preghiere innalzate al cielo dai terrorizzati passeggeri della nave, in particolare a gloria di San Giuseppe essendo quello del nubifragio, si racconta, il giorno della vigilia della sua festa.
Anche don Alessandro fece il suo voto al Santo promettendogli che, semmai si fosse salvato, lo avrebbe ripagato opportunamente. E così fu.
Ma perché il voto si concretizzò poi nei piccoli “pani a coppia”?
Di una analoga usanza si ha riscontro a Veroli dove “nei secoli passati, i canonici della Cattedrale erano soliti far distribuire in elemosina, due volte l’anno, insieme alle ‘palate’, pani di forma e dimensioni più grandi”, appunto il “pane detto a coppia”. Marcello Stirpe, che ha analizzato questa tradizione verolana insieme a quella dei cosiddetti “uccelletti di San Biagio”, piccoli mostaccioli anch’essi prodotti in coppia (La Provincia, “Le pagine del tempo”, 7 febbraio 2003: Veroli: gli antichi riti per la festa di San Biagio), ritiene che essa debba essere messa in relazione con “una antichissima tradizione praticata il 2 febbraio, giorno in cui la chiesa ricorda la presentazione di Gesù al Tempio. In tale circostanza, infatti, si soleva accompagnare l’offerta del maschio primogenito al Signore con il sacrificio di una ‘coppia di tortore’ o di ‘giovani colombe’, come riferisce l’evangelista Luca (2, 22 e segg.)”. È possibile, conclude Stirpe, che col tempo sia mutato tanto il significato originario della ricorrenza che lo stesso contenuto dell’offerta. È probabile, invece, che il “pane a coppia” avesse ancora una sua valenza evangelica al tempo in cui don Alessandro Capozzella decise di intraprendere quella sua iniziativa, ovvero egli fosse a conoscenza di altre simili già attuate sul territorio in ambito ecclesiastico, tra cui, forse, proprio quella di Veroli.
Cessata la tradizione dei «panicelli», con l’equivalente della somma necessaria alla loro produzione, la famiglia Capozzella ha comunque continuato a sostenere iniziative benefiche per perpetuare così, in tempi in cui il pane, anche se bianco, sembra non avere più il valore di una volta, il voto fatto dal suo antenato.
Da qualche anno, la tradizione dei «panicelli» di San Giuseppe è stata ripresa dall’associazione «La Torre». Con alcune varianti: tra l’altro, vengono distribuiti in piazza.
 

sabato 18 marzo 2017

SANTA LUCIA di Peppe Murro



C'era l'andirivieni indistinto delle voci, il trillo acuto dei giochi dei bimbi tra la folla.
C'era il tappeto greve di note di una banda di paese e il puzzo rancido di vino annacquato, il crocchiare di castagne e il sale del lupino.
E c'era la risata boriosa dei ricchi e il loro grasso sfottò, in alto, in disparte sull'unico marciapiede, a sorvegliare lo sguardo ossequioso dei passanti.
La piazza era piena, il palco della musica come una chioccia raccoglieva la gente, e i bambini mimavano il tamburo, e il trombone attirava il sorriso col suo grasso d'ottone.
E c'era la morte, lì, sotto gli sguardi di sfuggita, e l'odio sopito e il rancore pagato e la voglia dei servi di servire il padrone.
Quel giorno c'era la rabbia cieca dei mazzieri, c'era l'ordine diseguale del Novecento.
C'era una banda e la musica e la voglia di divertirsi e le castagne e il vino annacquato che oscurava la mente e sfamava la rabbia e la paura.
E c'era la morte, silenziosa, e cieca, e cattiva come ogni morte senza ragioni.
E le grida, e il dolore, e la percezione confusa di un'ingiustizia più grande in mezzo a quella degli uomini.
Era il giorno di Santa Lucia, in piazza.
Lì, dove oggi abita la memoria breve di clacson ed happy hour. 

giovedì 16 marzo 2017

DUE MUSICI… E MEZZO di Paolo Secondini


 
In ricordo di Donato Di Brango e Gino De Cesare

Decidemmo, Gino, Donato e io, di far musica insieme, così, tanto per passare il tempo e per coltivare una passione che in loro, sicuramente, era più grande della mia. La bravura di Gino e Donato, rispettivamente alla chitarra classica e al pianoforte, era a tutti ben nota in paese, e non solo.
Mi unii a loro con uno strumento, il flauto traverso, che mai avevo suonato in vita mia e che, a malapena, sapevo cos’era, com’era fatto. Mi fu consigliato dagli stessi Gino e Donato, i quali mi dissero che, se mi fossi applicato costantemente, sarei in breve riuscito a cavarne qualcosa. E infatti, dopo pochissimo tempo di esercitazione, ero in grado di strimpellarlo, dando voce finanche a qualche motivetto.
Ma con Gino e Donato il motivetto doveva essere serio, classico per l’esattezza.
Si cominciò con un brano, non complicato (per me, s’intende), di musica antica: precisamente del liutista irlandese (o inglese) John Dowland, proposto da Gino, che al brano aveva magistralmente aggiunto, mancandovi, la parte del pianoforte e del flauto.
«Facile, mi raccomando!» gli avevo detto. «Altrimenti mi perdo.»
«Non dubitare,» mi aveva risposto, con quel dolce sorriso che gli conoscevo. «In ogni caso… solmisazione, solmisazione, solmisazione… e non potrai sbagliare.»
Già! Solmisazione… Ma che diavolo era?
Mi guardai bene dal domandarlo.
Donato, per quanto avesse le sue preferenze in fatto di musica (amava segnatamente quella romantica: Beethoven, Chopin, Brahms, al contrario di Gino, che prediligeva quella barocca di Johannes Sebastian Bach), lasciava a Gino, quasi sempre, la facoltà di scegliere i brani, di curarne l’armonizzazione e altro. Gino era, senz’altro, un valente musicista (lo affermo con grande convinzione): unico, eccezionale; mentre Donato era, soprattutto, un ottimo esecutore (e lo dico con ammirazione). Rammento che gli bastava una sola lettura dello spartito per eseguirlo quasi alla perfezione: il che è semplicemente straordinario.
Dei tre, il meno edotto, il meno evoluto musicalmente – il più scarsetto, per dirla con franchezza –, ero io. Non lo nascondevo del resto, lo ammettevo anzi candidamente, sentendomi, verso i due bravissimi amici, nel più grande imbarazzo (mi paragonavo a una macchia d’inchiostro su un pentagramma immacolato: qualcosa, cioè, di veramente fuori luogo).
Pertanto, guardavo a Gino e Donato come a due “fari musicali”, due validi punti di riferimento, senza i quali sarei stato inghiottito, annaspandovi, dal mare agitato delle note.  Ma mi sentivo tranquillo, avendo in loro due salvagenti sicuri e… pazienti, molto pazienti, specie quando (il che accadeva frequentemente) dal mio flauto usciva un’acuta e madornale stonatura.
Seguiva, subito, una risata sdrammatizzante, e si cominciava di nuovo, con passione e tanta pazienza (verso di me, ovviamente).
Ma quante stonature ancora, e quante risate, per mia fortuna!…
Non suono più da moltissimo tempo.
Un giorno, per due eventi assai dolorosi, l’uno poco distante dall’altro, appesi, come suol dirsi, il flauto al chiodo (ancora è lì, ad arrugginirsi miseramente).
Nessun rimpianto di esso, nessuna nostalgia!
Mi conforta sapere che Gino e Donato suonano ancora – insieme e in luoghi più eccelsi e solari di quelli terreni – musiche alte, sublimi… dalle armonie celestiali.

mercoledì 15 marzo 2017

SI INIZIA




Il blog si propone, attraverso racconti, articoli e saggi, di rievocare i personaggi (piccoli e grandi), gli avvenimenti, gli usi, i costumi e le tradizioni di Aquino, perché non scompaiano mai dalla mente… come anche dal cuore.