giovedì 6 dicembre 2018

AMARCORD... GINO BARTALI AD AQUINO di Camillo Marino

Il 101° giro ciclistico d' Italia è partito da Israele in onore di Gino Bartali che si prodigò molto a favore degli ebrei durante l'ultimo conflitto mondiale.
Gino Bartali, leggendario campione, nel 1977 fu indimenticato protagonista ad Aquino in occasione dei campionati regionali di ciclismo riservato agli allievi e organizzato dal compianto Pasquale Piacente.
Intorno a quegli anni Piacente diede vita al gruppo sportivo omonimo di ciclo-amatori.
Della squadra feci parte anch'io e molti amici aquinati.
Pasquale Piacente, aquinate doc, gioielliere con attività a Roma, fu un grande appassionato della bicicletta.
Quando gli fu proposto di organizzare, ad Aquino, il campionato regionale di ciclismo per allievi, pensò bene di affidare al mitico Bartali il ruolo di "starter" della competizione.
Bartali fu presente ad Aquino nel 1977 e nell'anno seguente,1978,in occasione di un imponente raduno di ciclo-amatori.
In quella occasione ebbi la fortuna di sedere al suo fianco, nella sua macchina, una Golf-Wolkswagen della ditta Giordani a cui il campione era legato da impegni pubblicitari.
Con la Golf di Bartali, dotata di impianto di amplificazione, annunciavo al microfono il passaggio dei ciclisti nei vari paesi dove la carovana passava: San Giorgio a Liri, S.Apollonare, Sant'Angelo in Theodice, Cassino con ritorno ad Aquino.
Durante il percorso Bartali, personaggio dotato di grande umanità, di simpatia e di una semplicità disarmante, si aprì con me anche a suoi ricordi personali.
Non poté fare a meno di parlare del suo mitico rivale Fausto Coppi.
Raccontò di Coppi, della sua capacità di saper sfruttare l'immagine a fini pubblicitari.
Questo, ovviamente, consentì a Coppi lauti guadagni.
A tale proposito, Bartali aggiunse che, al contrario del suo storico rivale, egli non era stato capace di ricavare vantaggi economici dalla sua grande popolarità.
Altro ricordo nitido del grande  Ginettaccio
fu quello relativo alla proiezione di un filmato muto che narrava le sue gesta al Tour de France nel 1948.
La proiezione avvenne, di sera, nella piazza di Aquino.
Al microfono raccontavo ciò che Bartali, seduto al mio fianco, mi suggeriva.
In piazza numerosissimi aquinati e non solo
potettero vedere un film, in bianco e nero, con Gino Bartali assoluto protagonista e trionfatore in quell'epico Tour del 1948.
In Italia quell'anno si rischiò la guerra civile
per l'attentato a Palmiro Togliatti leader comunista.
L'entusiasmo per la vittoria al Tour di Bartali
scongiurò tale pericolo.
Questo è un bel ricordo per me e per molti aquinati che ebbero l'onore e il piacere di conoscere una figura leggendaria dello sport:
Gino Bartali, un grandissimo campione, un grandissimo uomo!
Per concludere, sottolineo ancora una volta
l'abilità, l'intraprendenza dell'indimenticabile organizzatore, Pasquale Piacente, artefice della presenza di Gino Bartali ad Aquino quaranta e più anni fa...

lunedì 5 novembre 2018

UNA GITA A CASERTA di Gianni D'Orefice


Nel gruppetto davanti alla fontana ci sono io, Giovanni D’Orefice, il più piccolo in alto a sin.,  al mio fianco Mario Tomassi, mio vicino di casa, davanti Carletto  (di cui non ricordo il cognome) e Biagino Tedeschi.                                                                                                                                                                                       

Tra gli innumerevoli ricordi che ci riportano al nostro passato cui abbiamo assistito o partecipato ogni tanto riaffiorano vicende che ci appaiono più vivaci. Nel caso specifico l’occasione mi è data dal ricordo che Tonino Grincia ha fatto per le Cronache Aquinati della biblioteca comunale aquinate degli anni ’60, quando fu trasferita nella sede della nuova scuola elementare di Via della Libertà.  Credo che non siano molti coloro che ricordano che la precedente sede era sita in un locale ricavato sotto la casa del compianto Libero Marsella, proprio all’inizio di via Giovenale.
Il bibliotecario era sempre il maestro Luigi Manna, uomo dal carattere dolce e sereno.  In questo caso la biblioteca era a poca distanza dalla mia casa, e quindi mi risultava facile raggiungerla anche di sera. 
Divenni, perciò, un assiduo frequentatore e ciò creò un certa confidenza del buon maestro Manna. Eravamo negli anni ’50 e i libri in casa non erano tanto disponibili. Allora cominciai a leggere libri a un ritmo di uno ogni due o tre giorni, secondo il numero di pagine, tanto che alla fine di qualche anno di assidua frequentazione conoscevo la quasi totalità dei libri, che certo non dovevano essere di elevato numero. Così avvenne che ero in grado di consigliare ai giovani lettori, che frequentavano il centro, i libri da leggere, di cui fornivo una breve sintesi del contenuto.  Si formò così un gruppo di assidui lettori e da cui nacque l’idea del maestro di premiarci con la proposta di fare una gita alla Reggia di Caserta. Una gita!!? Fatto per noi del tutto nuovo ed entusiasmante. Così una bella domenica di giugno, dopo la chiusura della scuole, organizzammo il viaggio.  Indossammo gli abiti della festa e partimmo alla volta di Caserta. Arrivati nella piazza antistante la reggia restammo affascinati dalla grandezza e dallo splendore della facciata esterna. Entrati, ci trovammo davanti una scala enorme  che portava ai piani superiori e cominciammo la visita delle stanze regali per  noi sembravano quelle delle favole lette sui libri!  A seguire, facemmo la lunga passeggiata nel parco fino alla fontana abbellita dal gruppo marmoreo di Diana e Atteone, sui cui domina la grande cascata! La nostra curiosità era sicuramente tanta che cercammo di risalire  il percorso che faceva la discesa dell’acqua, quasi volessimo scoprire da dove provenisse!
La giornata fu immortalata con lo scatto di alcune foto che avevo acquistato credo per l’occasione una Comet II ( la preistoria delle macchine fotografiche di  oggi).  Alcune di quelle foto le ho conservate e le propongo per ricordare anche alcuni dei partecipanti alla prima gita della nostra vita!  


sabato 27 ottobre 2018

RICORDO DI UN ARTISTA di Paolo Secondini


Non una nota commemorativa vuol esser la presente, ma un semplice, vero, sincero ricordo di Antonio Di Marco, pittore, scultore e carissimo amico, che ci ha lasciati, dopo lunga malattia, per approdare ad altri lidi, quelli celesti, dove di certo continuerà a esercitare la sua grande passione per l’arte, in cui credeva profondamente e che era, sono certo, uno dei suoi più importanti motivi di vita.
Quante volte mi sono recato a trovarlo nel suo studio – in vicolo San Costanzo, ad Aquino –, mentre, da solo, egli era intento a dipingere una tela. Interrompendo il lavoro, ben volentieri si soffermava a illustrarmi la sua creazione e altre esposte sulle pareti. Ricordo quanto amore e predilezione avesse per certi soggetti, innanzitutto religiosi, e poi ancora mitologici e letterari, e quanta foga, quanto sentimento nell’esternare questo e quel concetto, questo e quel pensiero, che rendeva ancor più intellegibili attraverso il segno, la pennellata, il colore: quel colore pastoso dai toni prevalentemente caldi che mi soffermavo a contemplare con ammirazione.
Ciao, Antonio, sono certo che soggetti ben più elevati ispireranno, ora, il tuo estro creativo, per il quale, assieme alla tua grande bontà, alla tua squisita gentilezza, sarai ricordato.

mercoledì 10 ottobre 2018

MERCATO DI PAESE di Paolo Secondini

Estate1960. Sabato notte.
Le ruote dei carri producono grande rumore nella strada. È un frastuono continuo, stridente. Non si può non destarsi dal sonno. Si rimane in ascolto, immobili, distesi sul letto.
Il fragore dilaga; cresce di intensità.
Altri carri giungono in fondo alla strada. Hanno ruote pesanti, cerchiate di ferro, e sono trainati da buoi o muli o somari.
Tutta la via, ora, risuona del loro rumore.
Nessuno si alza dal letto, né si affaccia alla finestra, né scruta, curioso, tra le strette fessure delle persiane. Nessuno si mostra sull’uscio, né protesta, né impreca.
Da anni si è abituati a questo rumore che si ripete ogni sabato notte e prelude al mercato della domenica mattina.   
I carri arrivano dalla campagna carichi di grossi canestri di frutta, legumi e verdura. A guidarli son contadini dai volti scavati, magri, dalle guance coperte di barba incolta e nera, dalle spalle ricurve.
Le loro membra sembrano gracili, malaticce. In realtà in quei corpi, fatti di ossa, muscoli e fibre nervose, c’è grande energia, come rivela la forza nelle braccia e nelle gambe anche quando son vecchi.
Nell’aspetto le donne non sono diverse dagli uomini: abiti stinti, rattoppati; mani grosse e callose; visi bruciati dal sole e pieni di rughe (sembrano solchi in campi riarsi); capelli senza colore né forma: quasi grovigli di stoppa…
Il frastuono delle ruote cessa di colpo.
Non appena i carri son fermi, i contadini saltano giù di cassetta. Le donne, rimaste di sopra, spingono verso l’estremità senza sponda i canestri, che gli uomini, in due o tre, a seconda del peso, afferrano e posano sul marciapiede disponendoli in fila, uno a fianco dell’altro.
«Dài, spingi!»
«Attento a non farlo rovesciare.»
«Più forza in quelle braccia!»
«A destra, a destra.»
«Tieni ferma la mula.»
«Coraggio, Rosina!»
«Forza, forza!»
«Così!»
«Va bene!»
«Piano!»
«Ecco, ci siamo!»
Come tutti i canestri son sistemati, lungo il bordo del marciapiede, ricomincia il fragore dei carri – ancora guidati dagli uomini – che riprendono strada verso campagna.
Le donne, invece, restano lì, sul posto: hanno davanti qualche ora di sonno – distese per terra o sedute, la testa reclina – vicino alla frutta, ai legumi, alle verdure, prima che spunti il giorno; prima che la strada si riempia di gente: uomini, donne, bambini, e risuoni di voci e grida di paese.

venerdì 28 settembre 2018

IN MARGINE A “IL GIORNO CHE INCENDIARONO LA SCUOLA” di Peppe Murro

Il “mestiere” dell’insegnante vive di un doppio inganno: da una parte l’oggettiva difficoltà di rapportarsi, e spesso confrontarsi, con una diversa generazione; dall’altra quel colloso legame affettivo che si nutre di giorni e di esperienze comuni dentro quella gabbia o chiesa, comunque la si intenda, che è la classe.
E questo, tralasciando la spesso mortificante “routine” burocratica che l’istituzione scolastica riserva proprio a quanti dovrebbe invece rispettare e, molto spesso, onorare per la dedizione e l’impegno con cui svolgono il loro lavoro.
Il libro di Paolo ne è una garbata testimonianza.
Con una scrittura agile e snella, mai pretenziosa o magniloquente, porta a galla giornate e figure di una realtà densamente umana proprio perché professionalmente difficile. E’ una sorta de “Il maestro di Vigevano” ma con minori cedimenti all’utopia o alla disperazione: personaggi come il sempre affamato Leandri o la solitaria “secchiona” Claretti si integrano perfettamente con la “vamp” Costante e danno consistenza e vitalità ad uno spaccato di quotidianità che altrimenti potrebbe essere solo un quadretto di colore di un giornale quotidiano. Né manca la fotografia di quei docenti che nella scuola realizzano il teatro della loro magniloquente e livida ricerca di autorevolezza, ma si tratta, come deve essere, di figure minori.
Il libro è breve e di tranquilla e piacevole lettura, ma pretende che si legga tra le righe, perché il racconto più autentico, quello non detto, il vero “lavorare stanca” del professore, sta lì, in penombra, nascosto fra personaggi accennati con una lieve tenerezza che li sfiora con rassegnata e delicata partecipazione da dietro il “muro” della cattedra.
E, a ben leggere, si nota la paziente umanità con cui l’insegnante si difende e difende i ragazzi (e se volete l’intera istituzione scolastica), come un vogatore attento in una barca di marinai distratti; vogatore silenzioso che nasconde la sua malinconia, consapevole di un lavoro necessario quanto difficile, che attende come il Minotauro di Borges la sua liberazione… o testardo come l’eroina di “Via col vento” che si riassetta i capelli e sfida la vita: domani è un altro giorno.
Grazie, Paolo.

venerdì 21 settembre 2018

SAN TOMMASO E IL SOSIA di Costantino Jadecola



San Tommaso ha un sosia: una notizia non so a conoscenza di quanti ma che, nella non improbabile ipotesi che sia ignorata dai più, vale la pena di divulgare se non altro quale contributo alla iconografia tomistica.
Dunque, San Tommaso ha un ‘sosia’.
Si parla, beninteso, di una statua, in particolare di quella che, come recita la didascalia del “santino” - non se ne abbiano, per carità, a Roccasecca - ‘si venera nella città natia’, ovvero ad Aquino, ed è custodita presso quella basilica-cattedrale di cui l’Aquinate, insieme a San Costanzo, ha la titolarità.
Il ‘sosia’, invece, dimora nella insigne collegiata di Santa Maria della Valle a Monte San Giovanni Campano dove troneggia, in consona collocazione, nella cappella a destra dell’altare maggiore.
Per uno di Aquino, quando si parla di San Tommaso, il riferimento visivo non va certo al San Tommaso di Benozzo Gozzoli o a quello del Beato Angelico né, tanto meno, a quello di Angelo Biancini.
L’unico San Tommaso è, per lui, il buon “Tomasone”, appunto, ‘che si venera nella città natia’: turbante in testa, sole sul petto, penna, in alto, nella mano destra, libro in bella mostra nell’altra e, naturalmente, il classico abbigliamento dei domenicani. Cosicché quando capiti al cospetto del “sosia”, al primo impatto la somiglianza è a dir poco impressionante per via della riproposizione degli “elementi” ai quali si è appena accennato. Poi, però, ad un esame più dettagliato ti rendi conto che questi è, forse, un tantino più slanciato ed ha il faccione (forse) più ‘pacione’, per usare un termine in voga, e, comunque, un tantino più giovanile. Ed anche se differisce il disegno della penna e quello del sole, se diversa è la collocazione del libro e la caduta del mantello, non c’è che dire: il “Tomasone” di Monte San Giovanni è proprio il sosia di quello di Aquino.
Che le cose siano in questi termini, e non in termini inversi, è presto detto. Scrive, infatti, mons. Rocco Bonanni (Aquino patria di San Tommaso, p. 9) che «nel 1888 la diocesi di Aquino inviò all’Esposizione Vaticana una statua di S. Tommaso, fac-simile di quella fatta a spese della mia famiglia e che si venera in questa Cattedrale. Il Santo Padre, l’immortale Leone XIII volle regalarla ai religiosi Domenicani, custodi del luogo che a noi ricorda i dolori ed i trionfi dell’Angelico in Monte San Giovanni Campano».
L’affermazione di mons. Bonanni - che peraltro contrasta con quanto affermato da mons. Giovan Battista Colafrancesco (Il sole di Aquino, p. 227) il quale scrive che la statua di San Tommaso venerata in Aquino fu un «dono del Papa Leone XIII» - trova puntuale conferma in Pio Valeriani, studioso monticiano, (Monte S. Giovanni Campano ieri e oggi. p. 50) il quale scrive che «Papa Leone XIII, in occasione del suo giubileo episcopale, donò alla nostra città la grande statua di San Tommaso D’Aquino. Essa fu trasportata nell’Abbazia di Casamari, da dove processionalmente il giorno 8 marzo 1889, domenica, nelle ore pomeridiane venne portata nella Chiesa Collegiata».
A prescindere da altre fonti sull’argomento, ritengo che quelle proposte possano considerarsi più che sufficienti per ‘coprire’ una eventuale ‘lacuna’ ma soprattutto come contributo, ancorché modesto, per stimolare una rassegna sull’iconografia tomistica nel territorio attuale del Lazio meridionale dove l’Aquinate nacque, visse in parte e morì.
In tal senso, peraltro, deve citarsi il recente studio di Stefano Di Palma (Il pittore svelato: la pala d’altare della Cattedrale di Aquino e la produzione di Pasquale De Angelis tra Arpino, Roccasecca e Posta Fibreno nel secolo XVIII. CDSC onlus. 2017) sulla pala d’altare, per una vita abbandonata a sé stessa presso la chiesa della Madonna della Libera, attribuita al pittore Pasquale De Angelis. Realizzata nel 1761, raffigura l’apparizione del Sacramento a Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio.

 

 

domenica 9 settembre 2018

RECENSIONE di Tommaso Di Brango


Paolo Secondini: IL GIORNO CHE INCENDIARONO LA SCUOLA, Lulu.com (Per acquistare il libro cliccare sull'immagine di copertina a lato)

Quando gli scrittori italiani hanno raccontato la scuola lo hanno fatto soprattutto per idealizzarla o per demolirla polemicamente. Per questo motivo si può dire che, pur inserendosi in un filone narrativo consolidato, Il giorno che incendiarono la scuola di Paolo Secondini ha da vantare un discreto grado di originalità. Questo agile romanzo, il cui sobrio e ironico realismo smentisce - o, forse, offre una paradossale conferma - al tono vagamente surreale del titolo, riesce infatti a raccontare l’universo scolastico schivando entrambi gli atteggiamenti sopra menzionati.
Lo strumento che permette questa rivisitazione narrativa del mondo della scuola è la caratterizzazione del narratore-protagonista, ovvero un professore quotidianamente intento a misurarsi con le piccole e grandi vicissitudini impostegli dal suo mestiere. In questo modo, infatti, Secondini riesce a mostrare la scuola non come luogo di formazione - e, quindi, ambiente da giudicare in base all’orizzonte d’attesa che suscita nella società e alla qualità dei risultati che garantisce - ma, piuttosto, come luogo di lavoro fatto di gioie, dolori, ansie, infantilismi ma, soprattutto, seccature. Accade, così, che il lettore si imbatta in alunni che rifiutano l’insegnamento dei docenti non per un più o meno definito spirito ribellistico ma perché, semplicemente, allo studio preferiscono il divertimento; oppure in genitori che nella scuola non vedono un luogo di emancipazione culturale e sociale ma solamente uno spazio adibito all’erogazione di titoli (il proverbiale “pezzo di carta”) da spendere sul mercato del lavoro; o, ancora, in bidelli presi da attacchi isterici, collegi docenti in cui a farla da padrona è la retorica ministeriale dello svecchiamento della prassi didattica, professori che palesano senza mezzi termini il loro disprezzo per alunni e colleghi ecc.
Da tutto questo emerge, chiaramente, una vera e propria diminutio del mondo della scuola che si riverbera anche nelle scelte narrative e stilistiche di Secondini. L’intero romanzo, infatti, è costruito mediante la giustapposizione di aneddoti più che attraverso l’elaborazione di una vera e propria fabula, e il combinato disposto di narratore autodiegetico e narrazione al presente indicativo conferisce al tutto un tono dimesso, estraneo all’implicita valorizzazione della materia narrativa che si sarebbe potuta ottenere volgendo il racconto al passato prossimo o remoto. Il professore del Giorno che incendiarono la scuola non racconta, in altre parole, una storia che merita di essere rievocata scavando nella memoria, ma al contrario dispone di schegge narrative, pezzi di narrazione di cui offre testimonianza quasi in presa diretta, come se stesse scrivendo degli appunti su un diario o un taccuino e sfiorando talvolta tonalità crepuscolari.

lunedì 3 settembre 2018

UN INCIDENTE di Peppe Murro


Sono andato via molti anni fa, ma questa parte di Aquino mi è rimasta nel cuore, perché qui sono nato e qui ho vissuto la mia fanciullezza. Così oggi, quasi per una insopprimibile nostalgia, mi sono incamminato lentamente per la salita della parte vecchia del borgo: che differenza da come lo ricordavo! le case sono belle e ben tenute, io invece ricordavo muri sbrecciati e case tenute in piedi da una disperata voglia di resistere.
È tutto più bello, ma mi si stringe il cuore a vedere che vi abitano poche persone. Una volta era un brulicare di voce e di richiami, di rumori; oggi è tutto tranquillo, tanto da attirare, e forse ho disturbato, anche qualche coppietta.
Sono arrivato al primo spiazzo, quello da cui si può ammirare la fossa delle Pentime: ricordo che sotto il portico c’era un forno, con un profumo del pane caldo che si spandeva attorno; di fronte alle scale che salgono a sinistra, c’era una fontanella di ferro, di quelle che si usavano per il pubblico: lì una volta trovai Pinuccio che piangeva tutto bagnato, con le mani nell’acqua a cercare di raccogliere una barchetta di foglie di canna intrecciate, bagnandosi sempre più. Lo aiutai e, in uno slancio del poco altruismo che hanno i ragazzi, lo accompagnai su per le scale.
La porta era aperta, una pesante coperta legata ad un filo per tenda: sbirciando vidi il vecchio calzolaio che in fondo, vicino ad una finestrella, batteva furiosamente un martello su una scarpa. Mi era sempre piaciuto quel locale, basso, con una volta a botte, credo l’unica sopravvissuta del vecchio castello. Oggi mi rendo conto con tristezza che la proterva ignoranza o la ferocia idiota dei tempi cosiddetti moderni al posto di quella testimonianza ha lasciato un buco vuoto, come una bocca spalancata sul niente.
Mi scuoto e passo oltre. Arrivo a quello che era il nostro regno, quella che oggi è la piazzetta dei conti d’Aquino: a destra c’è ancora l’arco di una porta sprangata perché con una scala portava giù alle Pentime, ma era di legno e tutta marcia, perciò pericolosa e proibitissima, pena scapaccioni a volontà.
I nostri giochi infatti si svolgevano quasi tutti su quello spiazzo polveroso, fra rottami arrugginiti e sterpaglie (non si direbbe a vedere oggi la piazzetta), facendo partite di calcio con un pallone perennemente sgonfio, con le porte sul limite, dove lo spiazzo scendeva con un declivio ripido verso il basso, fra sterpaglie e un deposito di non ricordo cosa.
Lì giocavamo, pressoché sempre, io, Angelo, Tommaso e Tonino. Un giorno a quest’ultimo, che era il più sveglio ed audace, venne una grande idea, la scivularella: c’erano fogli di cartone molto spessi; lui ne prese uno, lo sistemò sul bordo della discesa e, con un colpo di reni, si buttò giù, sollevando più invidia e stupore che polvere. Non fece in tempo a risalire che i suoi emuli era già pronti per la sua stessa avventura. Angelo ci rimise pure il fondo dei pantaloni, ma facemmo più volte lo stesso gioco, impolverati e sudati, finché al solito Tonino venne una nuova idea geniale: c’era un muretto semidiroccato all’angolo del nostro improvvisato scivolo; Tonino sistemò di nuovo il cartone sul bordo, salì sul muretto e con un balzo si scagliò sul cartone a velocità impressionante.
Andò giù urlando di gioia e di vittoria. E voi che avreste fatto? Guai a non fare la stessa cosa! Salì Angelo sul muretto, centrando cartone e discesa; poi toccò a me, e andai a finire col cartone accanto a un cespuglio di ortiche. Mentre mi grattavo furiosamente, vidi Tommaso che aveva sistemato il cartone, guardandolo come un cacciatore che mira ad una quaglia. Salì sul muretto e spiccò il salto.
Le nostre risate di soddisfazione e il suo urlo di dolore si levarono insieme come una bomba: arrivò giù urlando tenendosi il braccio in modo strano: seppi dopo che si era rotto il polso battendolo sul ginocchio.
Alle sue grida corsero degli adulti, aiutarono Tommaso a risalire, cercando di consolarlo; qualcuno disse che bisognava portarlo al pronto soccorso di Pontecorvo. Mi viene da sorridere oggi, pensando che Angelo e Tonino se l’erano squagliata e con Tommaso e gli adulti ero rimasto, con molta apprensione, solo io.
Venne il padrino di Tommaso, venne l’auto, venne la madre di Tommaso.
Non so perché fecero salire anche me accanto al guidatore, forse per consolare Tommaso. Ai sedili di dietro, il padrino e la madre di Tommaso, in mezzo lui che piangeva e si lamentava.
Non ho mai saputo se Tommaso piangeva e si lamentava per il dolore del polso rotto o per le sberle che la madre gli andava rifilando ad ogni singhiozzo: “delinquent, je t’accide, tu si la ruvina mia” e giù scapaccioni.
A un certo punto il compare sbotta: “E no, cummà, accusì nze fa!”.
 E zitte cumpà, stu disgraziat me sta a levà la salut” e giù altre sberle, mentre con un grande fazzoletto si asciugava le lacrime.
Ricordo che m’ero accucciato fino a scomparire, in basso sul sedile, mentre con sollievo pensavo:
Minu mal ca la man nc’era la mia…

mercoledì 18 luglio 2018

UNA “I” DI TROPPO di Costantino Jadecola

Era l’ultimo giorno di agosto del 1974. Un sabato. Quel pomeriggio ad Aquino si celebrava uno dei grandi eventi del centenario tomistico: l’inaugurazione delle nuove opere d’arte della basilica-cattedrale nel contesto di una solenne cerimonia presieduta da mons. Annibale Bugnini, segretario della Congregazione del culto divino; a far gli onori di casa, oltre al parroco, mons. Giovanni Battista Colafrancesco, c’era il vescovo diocesano, mons. Carlo Minchiatti.
E fu proprio con questi che se la presero, prima che la cerimonia avesse inizio, alcuni cittadini di Roccasecca per via della scritta che era stata posta sulla parete destra della facciata della chiesa a testimoniare l’evento centenario: ‘1274 - 1974 VII Centenario di S. Tommaso di Aquino’.
Secondo gli irati cittadini di Roccasecca, ed era questo che mandava loro in bestia, in quella scritta c’era una ‘i’ di troppo. Quella, per l’esattezza, che stava ad indicare in Aquino l’appartenenza, e dunque l’origine, del Santo: ‘S. Tommaso di Aquino’.
Quel ‘di’, insomma, a parer loro era del tutto fuor di luogo, avendo (notoriamente) l’Aquinate visto la luce in quel di Roccasecca: non ‘di’, allora, bensì una ‘d apostrofo’ che avrebbe reso giustizia alla storia placando l’ira dei paladini della roccaseccanità dell’Aquinate. I quali, peraltro, pretesero che si provvedesse subito ad apportare la reclamata rettifica.
Gli aquinati non è che gradirono molto la cosa: ne parlarono, commentarono l'episodio ma poi ragioni di opportunità e soprattutto di ospitalità nei confronti sia di mons. Bugnini che di mons. Minchiatti consigliarono di fare buon viso a cattivo gioco. Cosicché affollarono la basilica-cattedrale e parteciparono compunti, anche se in cuor loro un tantino adirati per quella ingerenza ‘esterna’, alla solenne ed importante cerimonia.
Non tutti, però. Nel frattempo, infatti, un manipolo di aquinati irriducibili e dunque molto, molto infuriati per quello che non poteva non considerarsi che un vero e proprio affronto consumato, peraltro, tra le pareti domestiche, studiarono la contromossa e l’attuarono in un batter d’occhio. Recatisi nel negozio di stoffe del compianto Costanzo Iadecola in via Giovenale, lì stesso realizzarono, grazie alla presenza nel manipolo di un paio di sarti, uno striscione con un testo breve, preciso e, come suol dirsi, compendioso: ‘San Tommaso È di Aquino’, con una ‘È’ a caratteri cubitali che non lasciava spazio a dubbi di sorta.
L’arrivo in piazza dello striscione fu salutato dall’entusiasmo - e che entusiasmo! - dei fedeli che proprio allora uscivano dalla chiesa tant’è che ci volle il bello e il buono da parte dei ‘fautori’ dello striscione stesso per evitare che la protesta ‘degenerasse’: con la scritta rivolta verso la chiesa, esso, infatti, costituì la punta avanzata, al limite della piazza verso l’accesso al sagrato, di una rumorosa contestazione che costrinse le autorità ecclesiastiche (e chi non condivideva quella manifestazione) a rimanere per molto tempo all’interno del sacro edificio prima di decidersi a guadagnare l’uscita, ma attraverso la più appartata porta della sacrestia.
La cosa ovviamente alimentò ancor più il disappunto degli aquinati i quali, a memoria d’uomo, per la prima volta in assoluto - ma sarebbe stata anche l’ultima - scendevano coralmente in campo a tutelare l’origine aquinate dell’Angelico Dottore attraverso una manifestazione che, a scanso di equivoci, è doveroso precisare non andò, comunque, mai al di là della protesta verbale, anche se, talvolta, un tantino colorita, come del resto capita anche (se non soprattutto) nelle (cosiddette) migliori famiglie.
Il giorno dopo, mentre l’anelato apostrofo sostituiva la ‘i’ nella scritta sulla facciata della chiesa a soddisfare le richieste dei roccaseccani, lo striscione, nottetempo sistemato a dovere (le lettere, infatti, era state solo appuntate con gli spilli), trovava, come suol dirsi, consona collocazione tra i due grandi platani, sempre con la scritta rivolta verso la basilica-cattedrale, a ribadire il suo messaggio: ‘San Tommaso È di Aquino’. E lì rimase per alcuni giorni, fino a quando cioè, approssimandosi il 14 settembre, ovvero il giorno in cui era in programma la vista di Papa Paolo VI, non venne sostituito da un altro, più diplomatico ma non meno eloquente: ‘La città di Tommaso saluta Sua Santità’.
Coloro i quali nel tempo hanno tentato di sottrarre ad Aquino l’onore di aver dato i natali a San Tommaso generalmente e puntualmente hanno evitato di prendere in considerazione alcuni aspetti che se non attengono in modo diretto il nocciolo della questione tuttavia riconducono senza ombra di dubbio ad essa, confermandone l’assunto. Ovvero che San Tommaso nacque in Aquino.
Scrive mons. Rocco Bonanni (Aquino patria di San Tommaso. Tip. Pietro Veratti. Roma, 1903, p. 28): «Non solo gloria si accrebbe ad Aquino con la nascita del Santo ma per essa ottenne anche favori e vantaggi, che altri non ebbe».
L’ultimo dei quali, se così può dirsi, in occasione del concordato del 1818 tra Santa Sede e Regno di Napoli che stabilì la soppressione delle diocesi di Aquino e Pontecorvo. A seguito di tale evento - sarà il caso di ricordare che Aquino contava a quel tempo nemmeno mille abitanti, quindi aveva nessun peso contrattuale - il Capitolo locale manifestò il proprio disappunto a chi di dovere rammentando, scrive Bonanni che «l’origine del Vescovado riandava a S. Pietro Apostolo, e che la città era la patria di S. Tommaso» (Bonanni, idem). Bastò questo perché, con un codicillo, il Concordato venisse modificato. Infatti, «Aquino ebbe la precedenza sulle due altre sedi unite aeque principaliter, in modo che i Vescovi devono prendere sempre per primo titolo Aquino, dove fanno il primo ingresso, mantenendo per le due altre di Sora e Pontecorvo l’alternativa» (Bonanni, idem), cioè ad uno Vescovo di Aquino, Sora e Pontecorvo seguirà un Vescovo di Aquino, Pontecorvo e Sora.
Ma al di là di ciò, che pur costituisce un fatto importante, la cosa veramente degna di nota e mai presa in seria considerazione è costituita da un particolare privilegio di cui Aquino ebbe a beneficiare in epoche in cui se il suo splendore medievale era ormai soltanto un lontano ricordo tuttavia era ben noto che proprio ad Aquino erano da ascriversi i natali dell’Angelico Dottore.
Fu, questo privilegio, quello concesso da re Alfonso di Aragona il 28 novembre 1443, mentre era a Caramanica, in terra d’Abruzzo, con il quale gli aquinati - ‘ipsam Civitatem Aquini, et homines ipsius Civitatis - venivano esentati dalla tassa sul sale e dal pagamento dei ‘pesi fiscali’, ‘ob reverentiam … Beati Thomae de Aquino’.
E non si trattò, beninteso, di un fatto occasionale. Esso, infatti, beneficiò di varie conferme la prima delle quali il 20 dicembre 1446 da parte dello stesso Alfonso d’Aragona mentre si trovava ad Anagni. Vi fu poi la conferma da parte di Federico, successore di Ferdinando II, il 19 novembre e il 5 dicembre 1495 e poi ancora quella del primo Viceré di Ferdinando III il Cattolico, ad istanza della Duchessa di Francavilla, Costanza d'Avalos-d'Aquino, tutrice di Ferdinando Francesco d'Aquino, utile Signore della Contea.
L'ultima conferma del privilegio concesso agli Aquinati, sia a onore e gloria di S. Tommaso ma anche per le devastazioni e stragi sofferte per la fedeltà verso la real famiglia d'Aragona, fu quella fatta da Carlo V al ritornò dalla guerra d’Africa, nella quale, ad avere il comando supremo, fu Alfonso d'Avalos-d'Aquino. Era datata ‘Napoli, 31 dicembre 1536’ (Bonanni, idem, p. 29).
 

 

sabato 7 luglio 2018

LA VISITA DEL RE di Camillo Marino


Quelle mura, che avevano resistito a secoli di barbarie, ora erano un mucchio di macerie: la ferocia imbelle della guerra moderna non aveva risparmiato né storia né arte né memoria, e Montecassino stava lì, coi suoi muri sbrecciati come un grido verso il cielo, col suo carico di pena e di accuse contro l’indifferenza e l’orrore, con lo stesso grido angosciato che dall’altra parte della valle si levava sui monti di Esperia.
Uno dei gesti più luminosi nella breve carriera del “re di maggio” fu venire lì, fra le buche delle bombe ancora aperte, per rendersi conto, per vedere, forse per capire, ma soprattutto per testimoniare una solidarietà da troppo tempo distratta e vestita di viltà.
Fu così che Umberto II, dopo aver visitato Montecassino, venne pure ad Aquino, paese pluribombardato e, per sua sfortuna, ferito dalle vicende della guerra.
Agli aquinati non era mai capitato di avere a che fare con un personaggio così importante! Subito la notizia corse dappertutto come suonasse una fanfara!
Bisognava accogliere il re, occorreva che gli andassero incontro le Autorità del posto, civili e religiose!
Il Sindaco però era assente e fu allora incaricato di fare gli onori di casa “Gions”, che a quei tempi faceva parte del Consiglio Comunale.
Per chi non lo sapesse, “Gions” era il soprannome con cui veniva da tutti chiamato Libero Marino, mio padre; e quel soprannome gli era stato cucito addosso sin da giovinotto, quando recitava nella locale filodrammatica. Infatti, in una recita doveva fare la parte di un americano che si chiamava “Johns” e doveva recitare una battuta che divenne celebre: “Lo so, ma non ho colpa / se dal petto il cuore scappa; / voi mi chiamate Gions / e Gions il cuor vi chiappa…
Così il nostro Gions, col suo bravo seguito di cittadini, si fece incontro all’illustre ospite. Per farlo rinfrescare un po’, il re fu condotto nella locanda “Giovenale” della famiglia Magnapera, nei locali che hanno accolto i primi passi di Tele Universo.
Non è dato sapere cosa si disse all’interno, dato che la memoria storica di questi fatti minimi si perde facilmente; quello che è certo è che la folla cresceva e premeva su porta e finestre con una curiosità sempre più incontenibile.
E quando il re uscì, come un sol uomo, i più esaltati lo presero in braccio e lo portarono in trionfo in un coro di “evviva” per quelle che erano state le vie del paese.
“Ci fosse stata la banda, avrebbe intonato la “Marcia Reale”!”, diceva sempre mio padre, con la sua voce burbera e il suo sorriso sornione.

mercoledì 27 giugno 2018

AQUINO NEI DIARI DI GREGOROVIUS di Paolo Secondini

La mattina del 18 ottobre 1859, dopo aver soggiornato per dodici giorni a Montecassino, in una atmosfera di quiete e serenità, lo scrittore tedesco Ferdinand Gregorovius lasciava l’abbazia benedettina per far ritorno a Roma, in cui risiedeva da qualche tempo.
A Montecassino, dove i monaci lo avevano accolto cordialmente, Gregorovius si era recato per fare ricerche nell’Archivio, comprendente rari e importanti documenti, circa trentacinquemila tra diplomi degli imperatori, principi e papi e cartae minores. Ma quelle ricerche avevano aggiunto ben poco alle notizie che aveva già appreso nell’Urbe, frequentando biblioteche pubbliche e private, tra cui la Minerva, la Sala dei Domenicani, la Biblioteca del Muratori e l’Archivio Storico Italiano. Se non altro, l’arrivo e il soggiorno a Montecassino gli avevano offerto occasione di visitare alcuni paesi della Ciociaria: Veroli, Casamari, Sora, Arpino, San Germano, Rocca d’Evandro, che fino a quel momento aveva conosciuto solo attraverso resoconti di viaggi e narrazioni storiche.
La mattina del 18 ottobre 1859 (una mattina umida e nebbiosa), dunque, Ferdinand Gregorovius, a bordo di una carrozza lasciava il monastero di San Benedetto, lieto di attraversare, durante il viaggio verso l’Urbe, altri centri ciociari ricchi di storia e di vestigia antiche.
Così egli descrive, nei Diari Romani, il suo arrivo nella città di Aquino:
A tre miglia di là (San Germano) la strada volge verso Aquino, dove mi sono recato. La nebbia si era nel frattempo ritirata. Sulla via si trova la torre di San Gregorio, ove si dice che questo grande papa abbia posseduto una splendida villa che in seguito regalò al convento.
Dopo circa un quarto d’ora giunsi ad Aquino, patria di Giovenale e di Pescennio Negro, signoria feudale dei conti di cui San Tommaso porta il nome. Così Aquino, in modo strano, ha prodotto un poeta satirico, un imperatore e il più grande filosofo della scolastica medievale.
Ad Aquino Gregorovius fece ritorno successivamente, restando affascinato non solo dalle bellezze archeologiche, da quelle naturali e paesaggistiche, ma anche dalla semplicità di vita e costumi dei suoi abitanti, per lo più contadini.
Nel suo libro Passeggiate per l’Italia, in tal modo egli descrive e parla di Aquino:
La sua posizione, nei pressi di un ruscello, non ha nulla di speciale, ma bellissimi per ricchezza e frescura di vegetazione sono i suoi dintorni e stupendo è il panorama che vi si gode. Esistono ancora presso il paese alcune rovine della città romana, avanzi di porte, di mura, reliquie dei templi di Cerere e di Diana; in complesso però nulla di notevole. Presso il ruscello sono le rovine di una chiesa del secolo XI, S. Maria della Libera, basilica a tre navate, sulla cui porta si scorge ancora una Madonna in mosaico, opera bizantina ben conservata. Vicine le une alle altre sorgono così le rovine dell'Aquino romana e dell'Aquino medioevale; a queste due epoche appartengono le celebrità della città.
Aquino si può vantare di aver dato i natali a uno dei meno famosi imperatori romani, Pescennio Negro…  Maggior gloria procurarono ad Aquino due altri suoi figli. Sono due tipi che rappresentano due epoche e che si possono l'uno all'altro contrapporre, come le rovine di un tempio romano a quelle della basilica di S. Maria della Libera. Quale maggior contrasto, infatti, di quello che passa tra Giovenale e S. Tommaso d'Aquino, fra il grande poeta satirico della corruzione pagana di Roma ed il più grande filosofo della sacra teologia scolastica, che ebbe il nome di Dottore Angelico?

lunedì 18 giugno 2018

AQUINO NEl MEDIOEVO di Angelo Nicosia

Il vescovo Iovinus muore quando già la città è occupata dai Longobardi Beneventani, l'arrivo dei quali segna per Aquino l'inizio della sua storia medievale documentata. Gregorio Magno, che nei Dialogi ricorda l’avvenimento, rimarca come il vetusto municipio romano avesse molto sofferto al primo impatto con i conquistatori e per il contemporaneo imperversare della peste, tanto che la popolazione risultò così decimata che non fu possibile trovare un successore alla morte del vescovo. È possibile, perciò, che gli Aquinati superstiti avessero momentaneamente abbandonato il centro urbano e la pianura per riparare in luoghi appartati e sui monti vicini.
Dalle notizie di Gregorio Magno si può supporre che l'occupazione di Aquino da parte dei Longobardi, sotto il comando del duca di Benevento Zottone (+590/1), possa datarsi verso il 587/589, all'indomani della presa di Montecassino. Come era avvenuto per le altre regioni settentrionali dell’Italia, anche qui la penetrazione longobarda dovette essere rapida e fluida per la debolezza delle difese lungo le vie consolari dell’entroterra, difese che i Bizantini invece dovevano aver rafforzate in direzione della zona costiera per impedire la conquista dei vitali scali marittimi.
Non abbiamo alcun elemento concreto per determinare l’estensione del territorio occupato dai Longobardi in questa prima fase, tuttavia possiamo ritenere che l’occupazione avesse interessato gran parte degli antichi territori municipali di Cassino, Interamna Lirenas e Aquino, in pratica tutta la vallata e i primi rilievi montuosi circostanti. Da quel momento e, vedremo, per oltre un secolo il territorio aquinate rappresenterà l'estremo possesso dei Beneventani verso il Ducato Romano. Gli studiosi concordano nel fatto che, con l’occupazione longobarda, Aquino diviene capoluogo di questo distretto di confine e che la sede dell'amministrazione o del comando militare sarebbe comunque da ricercare in qualche luogo sul terrazzo situato nell'area sud-est della città romana (tra la Porta S. Lorenzo e la località Fontana Malanova). Si può ritenere che non molto tempo dopo, quando si attenua l’impeto iniziale e si delinea chiaro il proposito dei nuovi arrivati ad una permanenza stabile sul nostro territorio, gli abitanti nascosti e dispersi nei luoghi circostanti ritornino nelle sedi prima abbandonate.
Paolo Diacono scrive nella Historia Langobardorum che l'espansione longobarda verso il Ducato Romano riprende nel 702 con il duca Gisulfo I, il quale estende la conquista fino ad Arce, Arpino e Sora. Con l'occupazione di Sora la sede del comando del distretto del Liri viene trasferita da Aquino a questa città. L’espansione del 702, che rinsalda il confine settentrionale, costituisce il presupposto per una emergente dominazione longobarda nell’Italia meridionale. Nel 774, abbattuto dai Franchi il Regno Longobardo nel nord Italia, il duca di Benevento Arechi II non solo riesce a conservare la sua indipendenza, ma sotto la spinta dell’orgoglio nazionale accoglie tutti i profughi del nord ed eleva il ducato a principato con chiaro significato anti-franco.
La storia della “Longobardia Minore” (così vengono definiti dagli studiosi questi territori longobardi) nel secolo seguente è caratterizzata da una sequenza di feroci lotte interne per l’autonomia, che coinvolgono anche forze esterne. Durante queste lotte si ricorse all’aiuto dei Saraceni che devastarono il territorio con continue scorrerie causando lo spopolamento delle campagne. I Chronica s. Benedicti Casinensis ricordano che nell’846 i Saraceni occuparono Aquino e saccheggiarono Arce.
Nell’849 viene sancita la divisione nei due principati di Benevento e di Salerno; nell’856 si avvia il processo di autonomia della contea di Capua da cui dipende il gastaldato del Liri. Nell'858, per il suo intervento in favore del principe di Salerno, viene concesso al duca di Spoleto il territorio del confine settentrionale con Sora, Arpino, Atina e Vicalvi. Con questa concessione Aquino torna ad essere capoluogo del Gastaldato del Liri.
I Chronica s. Benedicti Casinensis ci hanno trasmesso anche il nome del gastaldo di Aquino, Rodoaldo, e la sua curiosa e sfortunata storia. Verso l’860 Rodoaldo costruisce un castello nel villaggio di Aquino presso il Ponte curvo (oggi Pontecorvo) per sottrarsi dalla dipendenza del conte di Capua, il quale però tentava in tutti i modi di impedirlo. Durante la spedizione antisaracena dell’imperatore Ludovico II nell’Italia meridionale, Rodoaldo in qualche modo riesce ad avere tregua dai Capuani. Con la morte dell’imperatore nell’875 si ridestano le discordie in Campania e il nostro gastaldo torna a sentirsi insicuro tanto che si rivolge per aiuto ad un tal chierico Magenolfo che vantava aderenze presso la corte imperiale per aver sposato una nipote dell’imperatrice. Magenolfo accetta l’invito e si reca con la famiglia, con i servi e con tutte le suppellettili nel castello del Ponte curvo, ma alla fine tanto riesce a tramare che mette in prigione Rodoaldo e i due suoi figli e si impadronisce del castello e dei suoi vassalli. Dopo tale episodio di Magenolfo non si ha più notizia, mentre i documenti ricordano dopo di lui come gastaldo di Aquino Rodiperto e nel 949 il nipote di questo Atenolfo II Megalu.
Atenolfo II Megalu è certamente uno dei più importanti signori di Aquino, durante il suo governo, non solo viene realizzata la trasformazione del gastaldato in contea, ma riprende vigore la vecchia sede di Aquino, dove probabilmente proprio lui costruisce la residenza comitale fortificata sullo scoglio di travertino di fronte all’abitato medievale, in pratica corrispondente al moderno centro storico. La coesistenza dei due luoghi contigui e topograficamente distinti si rileva anche da un passo della Storia dei Normanni di Amato di Montecassino dove a proposito di Aquino si menzionano “la roche et la cité”. Nella citata residenza fortificata probabilmente è da riconoscere l’“Aquinense pretorium” citato successivamente nella cronaca di Leone Ostiense e nei documenti e che perciò alcuni studiosi moderni chiamano “castello pretorio”. A partire dal governo di Atenolfo II, infatti, i documenti ci assicurano che nella residenza aquinate si trova il palazzo comitale da dove è esercitata la giurisdizione amministrativa e giudiziaria su tutto il territorio della contea che si estendeva fino ai moderni comuni di Santopadre, Terelle, Pastena ed Esperia.
Tenace oppositore della politica espansionista di Montecassino, nel 953 Atenolfo II Megalu riesce ad imprigionare lo stesso abate Aligerno conducendolo ad Aquino e sottoponendolo a pubblica umiliazione. Alla sua morte, nel 984, la contea appare divisa in due parti: una pertinente a Pontecorvo in cui troviamo come successore il primogenito Guido e la seconda, più specificatamente aquinate, con gli altri figli Landolfo I, Siconolfo II e Atenolfo III Summucula. Ma è quest'ultimo che di fatto eredita la contea di Aquino e che continua la politica anticassinese del padre. Durante la sua amministrazione, infatti, nel quadro dei difficili rapporti con Montecassino, vengono fondati nel territorio aquinate i castelli di Castrocielo e di Roccasecca. Nella seconda metà del secolo X sorgono anche i castelli di S. Giovanni Incarico e di Teramen (questo ubicato all’estremità orientale della città romana di Interamna Lirenas).
Ad Atenolfo III Summucula succede un non meglio conosciuto Atenolfo IV, durante il dominio del quale le due parti della contea vengono di nuovo riunite sotto un unico comitato. Tuttavia, tra i dominatori longobardi di Aquino, quello che raggiunge il più alto grado di potenza e di popolarità è il successore Atenolfo V. Sotto il suo dominio la città viene abbellita di nuove costruzioni e di fortificazioni e viene ristabilita l'autorità vescovile sulla diocesi. Pur continuando ad esercitare il comitato su Aquino, nel 1045 Atenolfo V viene eletto console e duca di Gaeta e fin tanto che rimane in vita l'espansione normanna non riesce a penetrare nella regione dell'attuale Lazio meridionale. Morto però Atenolfo V il 2 febbraio 1062 (il suo epitaffio fu scritto dall'arcivescovo di Salerno Alfano), il principe normanno di Capua, Riccardo, nel 1064 si impadronisce prima di Gaeta e l'anno seguente della contea di Aquino.
Con la conquista normanna la contea viene confiscata e poi divisa in feudi assegnati ai fautori locali del principe di Capua, ai suoi comandanti militari e all’abate di Montecassino. I discendenti di Atenolfo V riescono a conservare solo i possedimenti di spettanza familiare mentre il titolo di conte di Aquino viene assegnato a Guglielmo di Montreuil. Dopo la morte di questi nel 1070, il principe assegna di nuovo il titolo ad Atenolfo VII, il quale, venuto in dissidio con Montecassino, perde di nuovo il titolo in favore dell'abate cassinese, fatto questo che provoca un'insurrezione dei cittadini aquinati. Per alcuni anni Aquino continua ad essere interessata prima dalla guerra tra il principe di Capua Riccardo e suo figlio Giordano e poi dai vari tentativi di ribellione dei baroni filoimperiali di ceppo longobardo contro i Normanni fìlopapali.
In questo periodo, secondo Giovanni Carbonara, e più precisamente tra il 1070 e il 1090, durante una fase di buoni rapporti con Montecassino, andrebbe collocata la costruzione dell’edificio di impianto “desideriano” di Santa Maria della Libera, forse come ricostruzione di una precedente chiesa.
È questo anche il periodo in cui i vari discendenti dei conti di Aquino cominciano ad acquisire titoli e feudi al di fuori dei confini della vecchia contea, e tra questi i feudi vanni segnalati quelli di Vicalvi, Isoletta e Atina. Alla fine delle lotte di supremazia nella zona, nel 1110 troviamo come conte di Aquino Landone III e nel 1123, come capo riconosciuto della dinastia, Atenolfo VIII, conte di Atina. Subito dopo i conti di Aquino appaiono imparentati con la famiglia del celebre monaco cassinese Pietro Diacono.
Nel 1148 Rinaldo I d'Aquino è feudatario di Roccasecca, e nel 1157 entra in possesso della metà di Monte S. Giovanni che, in aggiunta alla metà già posseduta dai nipoti, figli del fratello Pandolfo, diviene feudo exclave dei d’Aquino nello Stato Pontificio. Dal figlio di uno di questi nipoti, Atenolfo, signore di Alvito, discenderà Tommaso I che, per il suo valore militare, nel 1221 otterrà dall’imperatore Federico II il titolo di conte di Acerra, titolo per altro che era  già stato assegnato dal re normanno Guglielmo II al loro congiunto Riccardo, figlio del citato Rinaldo I. Gli eredi di Atenolfo di Alvito diventeranno poi conti  di  Loreto. I discendenti di questo ramo nel 1442 otterranno dal re Alfonso d'Aragona il titolo di marchesi di Pescara.
Dopo la morte del re Guglielmo II il menzionato Riccardo parteggia per Tancredi e per questa ragione gli vengono confiscati i feudi dall’imperatore Enrico VI. Nel 1201, tuttavia, Aquino viene restituito, insieme agli altri feudi, a Rinaldo II e Landolfo, figli di Aimone I, fratello di Riccardo, che si erano schierati con il papa Innocenzo III al tempo che questo aveva la tutela sul piccolo Federico II. Con la morte di Rinaldo II, Landolfo resta unico erede nei feudi della media valle del Liri. Da questo Landolfo e dalla sua seconda moglie Teodora nasce verso 1225 il celebre teologo e santo Tommaso d’Aquino.
Dopo la morte di Landolfo, Aquino e gli altri feudi della zona risultano divisi in porzioni tra i vari eredi della famiglia. L’incremento ulteriore del patrimonio, anche in seguito ai matrimoni contratti dai discendenti in diverse località del Regno di Napoli diede origine ad una vasta rete di relazioni feudali. Proprio a causa della frammentazione dei patrimoni e dell’estensione delle parentele, le vicende di tali feudi ebbero sorti diverse secondo le differenti scelte politiche dei vari rappresentanti della famiglia spesso in maniera autonoma e distaccata dai legami originari con Aquino. Ad esempio la maggior parte dei fratelli di S. Tommaso, avendo aderito, seguendo l’esempio del cognato Guglielmo Sanseverino, alla “congiura di Capaccio”, subiscono la pesante vendetta di Federico II: Landolfo figlio e Reginaldo vengono giustiziati, mentre gli altri riescono a malapena a mettersi in salvo nella Campagna Romana. Alla congiura non aderisce però l’altro fratello Filippo, che perciò continua a possedere la sua porzione dei beni paterni e può trasmetterli al figlio Pandolfo II. Nel 1266, con la venuta di Carlo d’Angiò, i primi vengono reintegrati nei loro beni, mentre Pandolfo II, ribellatosi durante la discesa di Corradino nel Regno di Napoli, viene ucciso e i suoi diritti feudali vengono assegnati a suo zio Rinaldo II. Quest’ultimo è da identificarsi con quel Rinaldo d’Aquino rinomato poeta in volgare della Scuola Siciliana.
Con l’improvvisa morte di Federico II nel 1250, si riaccendono più violente e diffuse le ribellioni alimentate dal papa Innocenzo IV, solo in parte e con difficoltà sedate da Manfredi. Messo a tacere il partito filopapale in Germania, all’inizio del 1252 Corrado IV sbarca con il suo esercito in Puglia ricongiungendosi con le truppe di Manfredi. Falliti i negoziati con il papa per ottenere l’investitura del Regno di Sicilia e la successione nell’impero, egli ordina subito la punizione dei ribelli. I cronisti del tempo, Niccolò Jamsilla e Matteo Spinelli, ricordano come tra i più attivi partigiani del papa vi fossero i conti di Aquino e che la punizione inflitta da Corrado agli Aquinati fu pesante perché la città venne bruciata e rasa al suolo.
Gli studiosi sono concordi nel ritenere che la città ricordata dai cronisti che subì la distruzione è da intendersi l’abitato nell’antico sito romano, che da quel momento più non si riebbe e determinò la lenta e inesorabile decadenza di Aquino.

venerdì 8 giugno 2018

IL MIO PRIMO GIORNO DI SCUOLA di Gianni Dorefice


Conservo un ricordo indelebile del mio primo giorno di scuola, segnato dall’incontro con un uomo che non era della famiglia, ma che è stato molto importante per me: Libero Quagliozzi, il mio maestro!
Mia madre mi accompagnò a conoscerlo il giorno precedente l’inizio della scuola, doveva essere il 30 settembre, all’epoca cominciava il primo ottobre, come tutti i coetanei ben ricordano.  L’aula era una stanza ricavata al primo piano di una casetta che ancora esiste, oggi ben ristrutturata, in via Giovenale  in quello slargo che si apre davanti al palazzo Quagliozzi, ora tristemente chiuso! (foto)  Vi abitava appunto la famiglia Quagliozzi formata da Don Innocenzo, il maestro Libero Quagliozzi e il fratello Eliseo, sposato e trasferito poi a Roma.
Non avevo compiuto ancora i 6 anni previsti per potermi iscrivere, ma mia madre, donna lungimirante e premurosa, volle che iniziassi prima perché  nato a Roma  ed essendo tornato ad Aquino all’età di circa 4 anni non conoscevo nessuno. Ricordo che non comprendevo neanche il dialetto dei coetanei, così non mi era facile comunicare e fare amicizia con loro. Tanto dovevo apparire loro estraneo che ricordo mi affibbiarono il nomignolo “tedesche” evidentemente inteso come straniero!
Torniamo al “maestro” come voleva farsi chiamare, perché aborriva l’appellativo “gnore” che al tempo era in uso. Dopo la presentazione fatta da mia madre, il primo giorno fu un “assolo” tra lui e me! Mi chiese se sapevo contare e mi invitò a farlo, ma io contai fino a cinque oltre non sapevo andare! La mattinata continuò facendomi esercitare a scrivere con la matita sull’unico quaderno che possedevo, quello con la copertina nera, così imparai a fare i bastoncini e i tondini.
Il secondo giorno, per me, ovvero il primo ottobre, arrivarono tutti gli altri compagni che di certo erano tutti più grandi di età, tutti sconosciuti e quindi per me l’unico riferimento restava il maestro.
Non dovette essere un anno facile tanto che di quel periodo non ricordo quasi nulla, mentre ricordo che il secondo anno fummo trasferiti   al secondo piano di una casa popolare in via della Libertà. Cominciò la vera scuola con tutte le altre classi, rigorosamente distinte tra maschietti e femminucce. Ben presto la nostra classe si cominciò a distinguere perché formata da ragazzi tutti motivati a crescere e sognare sotto la guida di un grande “maestro”.  Un uomo che, senza ombra di dubbio, ha e influito in modo determinante sul destino e sulle sorti di molti di noi che avemmo fortuna di averlo come modello, guida morale ed intellettuale: il maestro, nonché delizioso poeta, Libero Quagliozzi!

 

sabato 26 maggio 2018

CURIOSITÀ GIOVENALIANE di Tommaso Di Brango


Tutti ricordano che il primo, vero successo editoriale di Marco Travaglio fu L’odore dei soldi. Origini e misteri delle fortune di Silvio Berlusconi (Roma, Editori Riuniti, 2001), un libro scritto a quattro mani con Elio Veltri. Nessuno o quasi, però, sa che il titolo di quel fortunatissimo volume deriva, almeno in parte, dal verso 204 della Satira XIV di Decimo Giunio Giovenale, poeta aquinate vissuto a cavallo tra il I e il II secolo dopo Cristo. È lì, infatti, che si legge: Lucri bonus est odor ex re qualibet (“L’odore dei soldi è gradevole da qualunque cosa provenga”).
La cosa, ovviamente, non deve sorprendere. Il linguaggio della satira - soprattutto se aspra, virulenta e sentenziosa come quella giovenaliana, assai distante dalla aurea mediocritas di Orazio - si sposa assai agevolmente con le esigenze della polemica politica. Quel che però suscita un certo stupore è la frequenza con cui le acrobazie linguistiche di Giovenale hanno fatto breccia nell’immaginario collettivo, diventando addirittura modi di dire proverbiali.
Una delle frasi più frequentemente ripetute all’indomani delle varie tornate elettorali italiane, ad esempio, è quella secondo cui “al popolo bisogna dare panem et circenses”. Il più delle volte, infatti, l’estensore di simili - e non per forza errate, ahinoi - considerazioni non sa di star citando il verso 80 della Satira X di Giovenale (Panem et circenses tantum populus optat: “Il popolo desidera soltanto pane e giochi del circo”). Né d’altro canto si esaurisce qui il contributo fornito dalla Satira X al nostro quotidiano comunicare, perché in essa, al verso 356, si legge: Orandum est ut sit mens sana in corpore sano (“Dobbiamo pregare di avere una mente sana in un corpo sano”). Quante palestre hanno fatto - pedestremente - uso di questa considerazione giovenaliana allo scopo di darsi un’aura colta? Se poi ci si rivolge alla famosa - e per certi aspetti famigerata - Satira VI, ovvero quella “contro le donne”, si ha modo di imbattersi, al verso 347, nel celeberrimo interrogativo: Quis custodiet ipsos custodes? (“Chi controllerà i controllori?”). 
La sorte di Giovenale, insomma, è stata quella di chi dona senza dar notizia della sua generosità. C’è da augurarsi, però, che nel tempo si riesca ad avere contezza dell’importanza da egli avuta non solo per la storia della satira latina e occidentale, ma anche per le nostre parole di tutti i giorni.

giovedì 17 maggio 2018

SAN TOMMASO “SEQUESTRATO” di Costantino JADECOLA

Per Aquino la voce aveva cominciato a diffondersi con la celerità propria di certe notizie ‘piccanti’: “Vogliono portarsi San Tommaso a Sora!”.
Ma anche a creare qualche preoccupazione: “Va a finire che non ce lo ridanno più!”
Una variazione sul tema, del resto, dava per scontato addirittura una vendita del Santo da parte del clero locale. E, a peggiorare la situazione, provvide quella ‘voce’ secondo cui “Cicchètte”, al secolo Tommaso Treta, di professione falegname, stava approntando una grossa cassa da utilizzare per il trasporto del Santo.
Ovvero della statua del Santo, perché era di questa che si trattava.
All’origine naturalmente c’era un motivo ben preciso: nel centenario della canonizzazione del Santo di Aquino, il vescovo del tempo, mons. Antonio Maria Iannotta, aveva indetto un Congresso Eucaristico Interdiocesano, da tenersi a Sora per la fine di agosto del 1924, al quale era associata la commemorazione dell’Angelico dottore.
Anche se si trattava di una vacanza piuttosto breve, la cosa non andò per niente a genio a una parte degli aquinati i quali, forse perché non erano stati opportunamente informati sull’iniziativa o, piuttosto, per via di una naturale diffidenza, si misero all’erta in attesa dell’evolversi della situazione. Cosicché quando si seppe che la cassa era pronta e la spedizione della statua stava per concretizzarsi ci fu una mezza sollevazione popolare, affermano le fonti che ricordano l’episodio, totalmente orali, che si concretizzò addirittura nel ‘sequestro’ della statua stessa la quale, per precauzione, venne collocata nella piccola chiesa dedicata a San Magno, «di patronato della famiglia Frezza» (Pasquale Cayro, Storia sacra e profana/2, pag. 23), allora esistente nell’attuale via Cavour, poco più avanti del seminario.
Intervennero ovviamente anche i carabinieri. Ma non riuscirono a fare più di tanto. Anzi, raccontano le stesse fonti, uno di essi venne addirittura disarmato da una donna del popolo la quale, mostrando poi la pistola al suo legittimo possessore, gli disse che non era proprio il caso di utilizzarla. Anzi, tutt’al più, se proprio voleva usarla, se la doveva mettere in quel posto: sta di fatto che il povero carabiniere dovette penare un bel po’ prima di rientrare in possesso dell’arma ed evitare così guai peggiori.
Così la grande statua di San Tommaso rimase “sotto sequestro”. Semmai, dissero i “contestatori”, a Sora si può sempre portare l’altra, quella a mezzo busto, cioè, che, oltre tutto, è anche più antica e dunque più pregevole.
Ma, ovviamente, questo ‘suggerimento’ non venne recepito e si optò così da parte del clero per la statua del Santo venerata a Roccasecca la quale trasse il suo quarto d’ora di celebrità da quello che, secondo mons. Crescenzo Marsella (I Vescovi di Sora, pag. 284), fu un grande evento. Egli, infatti, scrive che «sette eccellentissimi vescovi e l’eminentissimo cardinal Legato Camillo Laurenti, inviato speciale del Papa, intervennero a Sora il 29, 30 e 31 agosto 1924 per celebrare le feste dell’Agnello divino e dell’angelo delle scuole. Ricordo ancora», riferisce sempre mons. Marsella, «quella selva di bandiere e d’insegne sotto i raggi d’oro del tramonto estivo, che si spiegava per le vie di Sora, la povera città distrutta dal terremoto. Era una falange fiorente di gioventù e di vita, un corteo interminabile di associazioni cattoliche, di confraternite schierate che incedevano al canto festevole degl’inni e dei salmi con tutti i parroci e i sacerdoti convenuti dai paesi delle tre diocesi, seguiti dai vescovi, dal cardinale, dalle autorità, da un’immensa fiumana di popolo».
C’è da supporre che ad Aquino la cosa fece né caldo né freddo. Anzi, il popolo ‘contestatore’, felice di aver evitato al buon “Tomasone” quella vacanza sorana che si riteneva piena di rischi, celebrò l’evento di cui si era reso protagonista addirittura elaborando una canzoncina che faceva grosso modo così: “Gl’arciprevete d’Aquine/ s’àve arraiate pe gli quadrini. / Pè gli quadrini e pè gli denari / s’anne ‘mpegnate Sante Tumase/”. Eccetera, eccetera, eccetera.

mercoledì 9 maggio 2018

IL PRIMO GIORNO di Peppe Murro

Non che non ce la facesse, in fondo era sì, magro, ma tutta forza e giovinezza: fosse stato alto come il fratello sarebbe stato davvero quello che si dice un fusto… Era piccolino, però, più o meno la stessa statura della madre, bassina e magrissima pure lei.
Eppure quella aveva una voce che si sentiva fino alla piazza: “sbrichet a camminà; movete ca è tard..cammina, sfaticat”.
Sì, ce la faceva ad andare più veloce, ma non ne aveva nessuna voglia: d’altronde quale ragazzo sarebbe stato contento di lasciare i giochi per andare a lavorare ?!
La madre, però, era stata irremovibile: “viste ca de legg e scriv nen te ne tè, almen te mpare nu mestier” ed aveva pregato il calzolaio di prenderlo come garzone.
“Cammina, movete”, il grido di sua madre dal basso della discesa gli diede quasi un’altra spinta.
 “E statt attent a nen cadì”. No, non sarebbe scivolato su quella salita, anche se le pietre erano lisce di pioggia: aveva buone scarpe, fatte di pelle indurita dal non avere scarpe.
Arrivò davanti ai gradini che portavano alla bottega di Ntonie spavent, il calzolaio, si voltò indietro: la madre era una cosa piccina in fondo alla discesa, una cosa che continuava a gesticolare in maniera terribile.
Forse sospirò, guardò davanti a sé e prese a salire quelle scale sulla sinistra con un certo timore: lì abitavano i signori e bisognava mostrare rispetto. Lui però doveva andare dal calzolaio, si drizzò allora sulla schiena, salì due gradini e disse con voce stentorea: “Bongiorn”.
Una vecchia monumentale spostò la tenda, gli fece quasi un sorriso: “Entra; tu sì Pepp gliu zingareglie, è ver?”. Fece di sì con la testa ed entrò: la prima cosa che lo colpì fu il profumo dei fagioli che cuocevano in una pignata ai lati del camino. Girò la testa e vide due occhi bonari che lo guardavano da sotto un ciuffo di capelli bianchi.
Il calzolaio era seduto su una panca bassa di fronte a un piccolo tavolo pieno di arnesi, fatto con dei bordi perché non cadessero. “Mama m’ha fatt venì”, disse come per scusarsi di stare lì.
Il vecchio sorrise, lo squadrò per bene e poi: “Sper ca te ne tè de te mparà…sta qua è meglie de nen fa nient”. A quelle parole Peppe pensò: “Ca le dice tu, pecché te si scurdate come è beglie giucà a pallone!”, ma non fiatò.
“Vabbè”, continuava il vecchio,” je nte garantiscie de te pagà, ma nu piatt de minestra pe te qui nen mancherà mai. Adduman po’ cumencià.”
Non gli riuscì di sapere chi o cosa gli diede tanto coraggio, ma in un lampo di geniale facciatosta disse: “Zi mastr, vabbè ca cumencie addumane, ma viste ca oggie so’ venute, pozz restà a magnà?”

sabato 5 maggio 2018

IL GIORNO CHE INCENDIARONO LA SCUOLA di Paolo Secondini


ll giorno che incendiarono la scuola è un romanzo breve, incentrato sulle esperienze di un insegnante di italiano e storia alle prese, quotidianamente, con i propri alunni.
Quest’ultimi appaiono poco disposti (salvo eccezioni, ovviamente) allo studio e al lavoro scolastico, poco motivati ad ascoltare le lezioni e a trarne profitto; molto propensi, invece, a interessi a volte bizzarri, stravaganti, ma certamente più veri e consoni al loro animo.
Ispirato a fatti del tutto veri, accaduti in vari istituti di istruzione secondaria di II grado (nei quali l’autore ha insegnato per anni), il romanzo narra vicende ora drammatiche, ora allegre, ora tristi, ora assurde, ora bizzarre, ora impossibili… ma sempre soffuse di una sottile ironia; vicende che hanno unicamente come scenario la scuola e, in particolare, l’aula con i banchi, le carte geografiche, la cattedra e, soprattutto, le pareti imbrattate di scritte, disegni, graffiti.
I nomi degli alunni sono fittizi; reali, invece, i loro comportamenti, le loro manie, il loro modo di essere… le loro piccole grandi storie.

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