Giocavamo per strada, nelle sere
d’estate della nostra fanciullezza. Correvamo, saltavamo, gridavamo, sotto un
cielo trapunto di stelle, nel mezzo del quale splendeva il viso rotondo,
argenteo della luna.
«Non
mi prendi, non mi prendi.»
«Di
là, di là.»
«Son
qua.»
«Ahi!»
«Non
lasciarlo.»
«Sì,
sì!»
«Acchiappalo,
acchiappalo!»
«Non
farlo scappare.»
«Oh!»
«…otto,
nove, dieci: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori.»
«Ehi,
ehi.»
«Uh!
Oh!»
«Buuuuuuuuh!»
«Tana
libera tutti.»
«Uno,
due, tre, stella!»
«Regina
reginella, quanti passi devo fare per venire al tuo castello con la fede e con
l’anello, con la punta del coltello?»
Le nostre voci si alzavano acute,
attiravano il lento guardare degli adulti – uomini e donne –, al fresco
sull’uscio di case popolari.
Essi narravano fatti di tempi
lontani: fatti ora lieti, ora tristi, che non suscitavano il nostro interesse,
come invece in altre occasioni, quando immobili, assorti, il fiato sospeso,
sedevamo per terra ad ascoltare.
Non paghi di giochi e di allegria,
guardavamo gli adulti a nostra volta, sperando vederli sempre là per moltissimo
ancora: vederli parlare, ridere… piangere anche.
Ma quando l’ultimo d’essi rincasava,
rincasavamo anche noi, ciascuno chiamato dalla mamma:
«Antonio!»
«Lidio!»
«Lisa!»
«Mario!»
«A casa!»
«È tardi!»
D’un tratto deserta e silenziosa, la
strada pareva che dormisse, sotto il cielo trapunto di stelle… nelle sere
d’estate della nostra fanciullezza.
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