sabato 29 aprile 2017

NOTIZIARIO CAMPAGNOLO di Paolo Secondini

Il vecchio Beppe Merollo se ne stava seduto, per gran parte del giorno in estate, all’ombra d’una quercia secolare, a breve distanza dal suo casolare di campagna e al margine d’una stradina bianca e polverosa.
A una svolta di questa, in pieno sole, di tanto in tanto appariva un uomo o una donna che, a piedi o in bicicletta, tornava da Aquino. Beppe, allora, si toglieva la pipa di bocca e, col suo roco vocione, proferiva un cordiale “buongiorno!”, oppure, con gesto vistoso della mano, faceva segno al passante di avvicinarsi.
Conoscevano tutti il Merollo, come pure il suo desiderio morboso di avere notizie, più che altro pettegolezzi, del paese.
Ognuno si fermava – non sempre però di buon grado – per poter ragguagliare il vecchio delle voci che circolavano ad Aquino, oppure di un fatto, più o meno eclatante, che vi fosse accaduto di recente. E parlava, parlava, parlava, stimolato dai vari: “che altro si dice?”, “cos’altro è successo?”, “e poi?”, “quel tale che fa?”, “e quell’altro?”… parlava come un contrito fedele al suo confessore, finché non aveva più niente da dire.
Solo allora, salutato il Merollo, riprendeva il cammino verso casa.
Insomma, ascoltando nell’arco della giornata notizie, quasi sempre le stesse, dai vari passanti, succedeva che Beppe – che mai s’allontanava dal suo casolare – alla fine fosse informato di un fatto, accaduto ad Aquino, meglio di chi glielo aveva riferito. Succedeva altresì che il medesimo fatto egli lo raccontasse, con dovizia di particolari – parecchi inventati da lui – ad altri contadini i quali, non avendo né tempo né voglia di recarsi in paese, trovavano comodo e semplice fare due passi fino al casolare del Merollo, per ascoltare da questi le ultime notizie e i personali commenti.
Pertanto, si poteva ben dire, in quell’angolo della campagna aquinate, che Beppe, pur sedendo dalla mattina alla sera, come un re sul trono, sotto le fronde ombrose della quercia secolare, fosse sempre a conoscenza di quanto accadesse o si dicesse in paese, al punto di “saper” più notizie, lui, di un vero notiziario.

 

giovedì 27 aprile 2017

R di Peppe Murro

La linea del collo della camicia era un misto indecifrabile di stoffa consumata e di unto stagionato di sudore; i polsini arrotolati sul braccio nascondevano quasi pudicamente la loro distanza dall’acqua e gli strappi della povertà: a guardare l’insieme non si sarebbe davvero potuto affermare che probabilmente un tempo quella camicia era stata bianca.
Eppure c’era qualcosa di indecifrabile che ti impediva la repulsa e rendeva gradevole quella figura: una voce calma e garbatamente roca accompagnava i gesti alati del discorso, appena spezzata da qualche picco di risata. E guardavo i suoi capelli arruffati che per pettine forse avevano conosciuto solo le dita, guardavo il suo viso, dove lo scalpello del tempo aveva scavato solchi di fatica e di miseria, quasi per monito ed insegnamento.
Con tono semiserio parlava dei lavori fatti, della gente incontrata, delle sue bevute; parlava con un pudore che non gli riconoscevo del suo privato, e di come si viveva, un tempo, in quella zona del paese, dove la vecchia venditrice di uova ogni tanto gliene regalava uno, dove lo scalpellino si faceva trovare a sera sulla porta di casa con due bicchieri e un fiasco di vino, dove la famiglia di zingari lo invitava a mangiare baccalà e patate.
Parlava pure di quelli della piazza, sempre pronti allo sfottò, sempre in agguato per farlo ubriacare, sapendo che anche un solo bicchiere era sufficiente.
Io guardavo i suoi occhi stagliarsi sul viso rugoso, attenti come chi ha visto tanto, rassegnati e malinconici come chi ha conosciuto la vita e i suoi artigli; pensavo alla felicità di un disegnatore accorto a poter riprodurre quei solchi, alla sottile sapienza delle rughe attorno alle labbra, alle fosse delle guance, alla fronte scavata.
E guardavo le sue mani disegnare nell’aria simboli e situazioni, accompagnare il discorso esaltando le parole: le vedevo ora poggiarsi sul grembo quasi stanche, magre, con le vene in evidenza e le unghie sporche, ora alzarsi in volo e lisciare la barba incolta.
C’era un che di titanico in quella situazione, una titanica sconfitta come forse accade sempre con le persone normali quando la vita presenta un conto troppo amaro e crudele da accettare: avrei voluto abbracciarlo più per consolare me che lui: riuscii soltanto ad offrirgli una sigaretta.
Fumammo insieme, in silenzio.

martedì 25 aprile 2017

IL BUE MUTO di Tommaso Di Brango


Mangiavamo e conversavamo. E per la verità, quando il vino ci pareva particolarmente dolce e la giornata propizia, cantavamo pure canzoni non molto pudiche. Tra noi teneva banco Rolando di Champagne, che si divertiva a raccontarci di tutte le donzelle provenzali a cui aveva spezzato il cuore e costringeva di fatto ognuno di noi a inventare storie altrettanto numerose e inverosimili per non sembrar da meno al suo cospetto. Chissà, poi, se le storie che ci raccontava Rolando erano vere o erano solo favole! Sta di fatto che si era questo: studenti dell’Università di Colonia che, al refettorio, si trasformavano in un branco di vitelli dal gomito alto e dalla fantasia accesa.
Solo Tommaso era diverso. Non che non amasse la nostra compagnia, anzi! Ogni volta che terminavano le lezioni del mattino e ci si recava al refettorio mi si avvicinava a parlare di cose d’ogni giorno e si comportava come colui che, nel cercare un contatto con un suo simile, sta facendo un grande sforzo per vincere la naturale timidezza che abita nell’animo suo. Tuttavia, quando ci si sedeva a tavola e noialtri si iniziava a raccontare delle dolci fanciulle che appresso a noi avevano perso il senno in vite mai vissute o a buttar giù battute oscene, lui si sedeva di fronte al piatto e pareva andare da un’altra parte.
Ricordo bene l’immagine di Tommaso, è come se fosse ancora adesso davanti a me. Era di figura possente, alto come un armadio e con un ventre che pareva quello di un abate benedettino, e tutte le volte che sedeva al tavolo del refettorio appoggiava la voluminosa faccia rotonda alla mano sinistra. Potrei azzardarmi a dire che, in quei momenti, più che mangiare masticava, perché era chiaro come il sole che mentre portava il cibo alla bocca Tommaso stava pensando a tutt’altro e anche noi, che intorno a lui cantavamo, bevevamo e dicevamo corbellerie, non eravamo per lui che lo sfondo su cui si muovevano altre, ben più nobili figure.
Lui, in quei momenti, era in compagnia di Aristotele e Avicenna, e pensava a come l’essere sia atto e non puro e semplice fatto; oppure rifletteva sul mistero dell’Eucarestia e della transustanziazione e si interrogava sull’idea del male come deprivazione del bene proposta da Agostino da Ippona; oppure, ancora, ripensava al modo in cui occorreva interpretare le sentenze di Pietro Lombardo e le parole del Discorso della Montagna. Teneva lo sguardo basso, verso il piatto di minestra: ma il cuore era in questo enorme cielo.
Aveva gli occhi buoni, Tommaso. Chiari ma non azzurri, sembravano quelli di un bove che rumina nei prati e non si fa turbare dal frastuono del mondo, e sovrastavano un naso leggermente arcuato, che visto di profilo pareva il becco di un pappagallo. Tuttavia ricordo bene che, quando interrompeva il suo perenne ruminare per tirar fuori quello che stava lavorando dentro di sé, quegli occhi parevano trasformarsi insieme all’intera sua figura: lo sguardo diventava quello di un’aquila e la favella correva veloce come le rapide di un fiume mentre sulle labbra si disegnava frequentemente un sorriso, quasi che Tommaso provasse una interiore felicità nel ragionare con gli altri di ciò che fino ad allora aveva tenuto dentro di sé.
Ma questi erano momenti. Per la maggior parte del tempo quel ragazzo venuto dalle terre di Federico II se ne stava mite e taciturno, tanto che noialtri sciagurati avemmo la pessima idea di definirlo “il bue muto”. Oggi però posso dire che ebbe ragione il magister Alberto di Colonia quando, appreso di quello stupido appellativo, ci disse che il muggito di quel bue, un giorno, si sarebbe fatto sentire da un capo all’altro della Terra, mentre dei nostri schiamazzi si sarebbe avuta notizia solo perché avvenuti alla presenza di quel gigantesco ruminante.

lunedì 24 aprile 2017

UN CAPPELLO PIENO DI ROSE di Paolo Secondini

Maggio 1963
La nonna sapeva che il vecchio Filidoro, quasi tutte le sere, le rubava le rose dal giardino per infilarle nel nastro del cappello, tutt’intorno alla cupola, e per ottenere in tal modo un copricapo variopinto: una “corona profumata”, com’egli diceva.
La nonna non si arrabbiava per questo, ma le dispiaceva che il vecchio strappasse le foglie, spezzasse i rami, cogliesse i boccioli, insomma che devastasse il roseto come un ciclone o peggio ancora.
Un giorno, non potendone più, decise di fare la posta a Filidoro per coglierlo sul fatto: voleva cantargliela chiara, gridargli in faccia il suo disappunto per quello che combinava.
«Mi sentirà,» bofonchiava, «mi sentirà quel vecchio manigoldo! Lo farò arrossire fino alla punta dei capelli.»
Quando scese la sera, si nascose dietro un arbusto di alloro e rimase in attesa che il ladro giungesse. Non dovette aspettare per molto.
Era ancora chiaro abbastanza allorché Filidoro, cercando di non far rumore, aprì il cancello di ferro del giardino. Si guardò per un attimo attorno con circospezione poi, a passi lenti, ma decisi, si diresse verso le rose addossate a un basso muretto di mattoni.
Chissà, era forse convinto che la nonna le coltivasse apposta per lui!
Tante ne coglieva e tante ne infilava nel nastro del cappello, che si rigirava più volte tra le mani con aria soddisfatta.
Se una rosa gli pareva sfiorita la sostituiva con un’altra: una piccola con una grande, una rossa con una bianca, una gialla con altra ancora.
In terra, proprio ai suoi piedi, c’era come un tappeto di fiori esangui, molti dei quali miseramente calpestati.
A quella vista la nonna fremeva, sbuffava, stringeva le mascelle.
Traboccante di collera, fu sul punto di uscire dal suo nascondiglio quando, vedendo il vecchio andar via col suo copricapo floreale e un’espressione felice nello sguardo – come mai aveva veduto in quel “bimbo” aggrinzito di ottant’anni –, pensò che le rose, in fondo, stavano meglio in testa a Filidoro che sui rami del suo giardino.

sabato 22 aprile 2017

IL VESTITO DI PANNO TURCHINO di Costantino Jadecola


Si chiamava Tommaso Ricci ed era figlio «del vivo» Giuseppe Antonio. Originario di Aquino, dove era nato nel 1837, faceva il bracciante nelle campagne di Ceprano. Tutto sommato una persona abbastanza tranquilla almeno sino all’inizio del mese di ottobre del 1865, quando decise di cambiar vita e di andarsi ad arruolare nella banda del brigante Costantino Mattei, detto Medichetto, nella purtroppo non errata convinzione che ne avrebbe tratto un tornaconto sicuramente maggiore «da quello che ritraeva dalle sue giornaliere fatiche, sebbene gli fosse stato questo sufficiente per vivere avendo persino avuto la mercede di bai[occhi] 20 al giorno», come relaziona il «giudice procuratore» Angelini nell’atto istruttorio (18 febbraio 1866) custodito tra i documenti presso l’Archivio di Stato di Frosinone (Delegazione Apostolica - Affari generali, militari, polizia. B. 72, f. n. 58). Per i riscontri, comunque, non si dovette attendere più di tanto: il lacero e miserabile «vestito» che aveva indossato sino ad allora venne infatti ben presto sostituito con uno del tutto nuovo di panno turchino cui abbinò un bel paio di stivaloni in pelle. E, tanto per gradire, spuntò fuori anche un’amante: la vedova cepranese Agnese Germani.
La cosa, ovviamente, non sfugge ai più; lui, però, per non dare ad intendere quel suo cambio di «attività» il 19 ottobre si era procurato un foglio di via «per le campagne romane e lavori delle ferrovie, onde far credere alla Polizia che egli era dedito alla fatica» anche se la sua scomparsa «dai lavori campestri in Ceprano» ben presto «fece sorgere la voce pubblica di essersi dato al Brigantaggio.» D’altro canto, egli fece del tutto per avvalorare tali voci facendosi «veder girovago per Ceprano e campagna» con indosso il nuovo abbigliamento.
Ma perché Ricci si guadagnò quel ‘titolo’ di brigante? Come prima cosa attuò una «estorsione in conventicola armata» a danno di Domenico Fanelli di Casalvieri, «nel regno di Napoli», dalla quale ricavò, con altri, circa 190 scudi ed oggetti vari.
Era «una ora prima del giorno» del mattino del 28 ottobre 1865 quando lui e due suoi compari armati di archibugi fermarono «il carrettino guidato dal vetturino Giovanni Vannoni che dirigevasi da Ceprano alla stazione della ferrovia portando persone»: fra queste, i tre malviventi focalizzarono la loro attenzione su Domenico Fanelli che, fatto scendere dal «carrettino», condussero in montagna.
A far da tramite per il riscatto fu una donna cui la moglie del Fanelli consegnò cento scudi; quando, però, l’operazione si concluse, al sequestrato non fu detto niente. La cosa andò avanti per un paio di settimane. Poi, «trovandosi il Ricci in unione di altri quattro tutti armati in custodia del Fanelli proposero a questi di lasciarlo in libertà qualora avesse poi detto di esser fuggito nel mentre essi dormivano, e purché avesse loro inviato scudi cento, e cinque vestiarii, cioè uno per cadauno, minacciandolo in caso diverso della vita e delle sostanze.» Fanelli trovò la proposta molto interessante e non esitò un minuto a tornare libero. Poi, una volta a casa, pur avendo appreso che il riscatto di cento scudi era già stato pagato, intese comunque non venir meno all’impegno assunto coi briganti.
Passa un mese appena e Tommaso Ricci è protagonista di un altro episodio, decisamente molto più grave.
Una colonna mobile di granatieri ed alcuni gendarmi il 12 dicembre erano stati in perlustrazione sui monti Cacume e Gemma. Dopo aver fatto sosta per la notte a Supino, dove si rifocillarono con «pane di formentone», nel discendere la mattina seguente la montagna di Cacume, vennero assaliti da una banda di briganti che «da una imboscata sul monte Gemma scagliava una scarica di fucilate contro la colonna militare, la quale corrispondendo con una altra scarica impegnava un vivo fuoco di contrasto. (…) Il Ricci ed un suo compagno, non contenti di tanto, si ponevano ad inseguire la colonna medesima in ritirata ed esplodendo delle archibugiate rendevano cadaveri il maresciallo Antonellini ed il Granatiere Emidio Venti nel tempo stesso che insultavano i militi rimasti indietro ‘a voi magna polenta!’», con un chiaro riferimento al cibo consumato la sera prima dalla truppa.
Sulle prime ore della notte di quello stesso 13 dicembre Tommaso Ricci si presentò a casa di Gio: Battista Basacchi e Girolamo Colafranceschi, suoi conoscenti, che abitavano non lontano da Ceprano, in contrada Selvotta, chiedendo loro alloggio e ricovero ma, soprattutto, un documento che attestasse la sua stabile dimora in quel luogo sin dal 19 ottobre. Se il Basacchi rifiutò di ospitarlo - ben sapeva, infatti, che Ricci si era dato al brigantaggio - diverso fu il comportamento di Colafranceschi il quale, nonostante fosse anche lui a conoscenza dell’attività criminosa intrapresa da Ricci, lo ospitava, «speranzandolo», ovvero assicurandogli il rilascio, «del ricercato documento» ma in realtà con l’intento «di farne eseguire il fermo per ottenere il premio stabilito». Cioè, la taglia.
E fu così. In sede di confessione, Ricci, pur confermando taluni degli episodi di quelli più prossimi al suo arresto riferiti dai testimoni, smentisce, ovviamente non creduto, di aver consegnato l’archibugio e quant’altro a Girolamo Colafranceschi. Non regge, però, nemmeno quel suo alibi che doveva escluderlo dall’aver preso parte allo scontro di monte Cacume. Ma fu soprattutto per via di quel vestiario «in panno turchino», vestiario che evidentemente dava molto nell’occhio, che la credibilità di Tommaso Ricci andò a farsi benedire. Egli, infatti, affermò di essere stato a lavorare in ferrovia nella zona di Passo Corese «sotto l’appaltatore Quaranta ed il caporale Francesco D’Ottavi e di avere da questi ricevuto il danaro per comprare in Roma il vestiario indossato.»
Agli inquirenti non ci volle più di tanto per verificare la concretezza dell’alibi: «non solo non si trovò notato nelle liste dei lavoranti il suo nome e cognome, ma non fu vero che il D’Ottavi fosse mai stato nella linea della ferrovia di Corese, il che dié piena prova per contestare che esso inquisito in quell’epoca stesse al brigantaggio, e che quel vestiario fosse il risultato delle operazioni di brigante, e non di lavorante alla ferrovia come pretese far credere.»
Ma che fine fece Tommaso Ricci? Le carte non lo dicono. Non è da escludere, però, che, dati i tempi, abbia subito una punizione esemplare. Forse, anche pagando con la vita.

giovedì 20 aprile 2017

GIOVANI VITE di Stefano Iadecola

In ricordo di Florio Franchini
Non dovrebbe accadere, ma purtroppo accade. Giovani vite spezzate improvvisamente. Momenti in cui ci si ferma a riflettere sull’inesorabilità del destino, sulla precarietà dell’esistenza umana e ci si abbandona al ricordo intimo e personale di quei cari e sfortunati amici prematuramente scomparsi. In quei casi mi chiedo spesso “quand’è che l’ho visto l’ultima volta? Quand’è stato che ci siamo incontrati? Un saluto veloce, un cenno con la testa, due chiacchiere di circostanza?… ma quando?”.
Ricordo l’ultimo scambio di saluti con Angelo Capraro, sempre sorridente, davanti ad una tazzina di caffè in un bar della piazza del paese. Mi trovavo proprio in quello stesso bar quando, tempo dopo, appresi di quello sciagurato schianto mortale sulla superstrada, all’altezza di Sant’Elia Fiumerapido. Ricordo inoltre un rapido saluto ad un altro amico, Giovanni Cerasi. Era una sera in piazza. Passeggiava con le mani in tasca e mi diede la sensazione di essere molto maturato rispetto ai tempi delle scuole medie. Ancora un incidente d’auto, questo in zona Fiat. E poi ricordo con affetto Florio Franchini e con lui una fanciullezza spensierata che non c’è più.
Eravamo tutti del 1979. Tutti compagni nella scuola del paese, al tempo delle medie. Con Florio feci subito amicizia, una rarità per il mio carattere schivo ed introverso. Al contrario Florio era un burlone, che amava coinvolgere le persone attorno a lui. Marchingegnava scherzi di ogni tipo e spesso anche di cattivo gusto, tant’è che sovente era il solo a divertirsi. E la sua risata era riconoscibilissima: fragorosa, rumorosa e contagiosa. La sua stessa figura era inconfondibile. Lo ricordo, già intorno ai 12 anni circa di età, avvicinarsi agevolmente al metro e ottanta di altezza e superare i 90 chili di peso, ma con l’agilità di un ragazzino, quale era in realtà. In assoluto la sua mole, il torace prominente, le ampie spalle e il viso tondo e pieno, erano un marchio identificativo caratteristico. Se si avvicinava, “faceva ombra”. Tuttavia bastava guardarlo negli occhi per capire che non avrebbe fatto del male ad una mosca.
Dell’amico Florio il ricordo più bello che conservo fu di quel giorno in cui pianificammo assieme il primo “filone”. Marinammo la scuola, insomma, vagando per il paese senza meta. Non fu bello il gesto, ovviamente, né l’idea di premeditare una cosa così stupida. Il bello di quella circostanza è che adesso, a distanza di oltre 20 anni, esso costituisce il più nitido ricordo che ho di un amico scomparso.
Trascorremmo quella una mattinata “galeotta” su un’altalena nei pressi delle Case Valli a cantare “attenti al lupo” di Dalla, per vedere se conoscevamo tutte le parole. Ogni tanto Florio diventava serio, raccomandandosi con me, affinché non dicessi niente di un’avventura così “trasgressiva” (era così che la vedevamo). Tuttavia filò tutto liscio, almeno quella fu la prima impressione che ebbi quando feci ritorno a casa. La cosa incredibile, della quale rido ogni volta che ci penso, è che, mentre io riuscii a tenere il nostro segreto, Florio cedette subito. Suo padre Pasquale, persona distinta e oggi un amico, lo “colse in castagna” praticamente subito e, almeno dal racconto desolato che mi fece Florio stesso, lo “spinse contro il muro costringendolo a vuotare il sacco”. Ancora oggi non riesco ad immaginare la scena di quel ragazzone sbattuto come uno straccio. Fatto sta che Florio confessò di aver avuto un “complice” nel “fattaccio” e fece il mio nome. Pasquale chiamò a casa per avvisare i miei, con tutte le conseguenze che si possono immaginare. Eppure quell’episodio non glielo feci pesare più di tanto. Forse inconsciamente temevo di perdere un amico se gli avessi rinfacciato quell’episodio di “alto tradimento”.
Gli anni delle medie, comunque, finirono e ognuno andò per la sua strada. Ci perdemmo di vista. Era una cosa che forse sapevamo sarebbe accaduta prima o poi. Ricordo che lo rividi alcuni anni dopo fuori del locale in cui la mia classe aveva organizzato e stava festeggiando il Mak P 100 del liceo. Era molto cambiato, dimagrito, portava i capelli lunghi e la sua crescita in qualche modo aveva avuto un rallentamento, sebbene la stazza fosse comunque “importante”. Ci salutammo, senza troppi entusiasmi a dire il vero. Mi chiese di aiutarlo ad entrare, per prendere parte alla festa come “imbucato”… non ricordo altro.
Qualche tempo dopo seppi della sua morte. Qualcuno gli tagliò la strada mentre guidava la sua vespa. Un altro tragico incidente. Una giovane vita spezzata…. ancora.

martedì 18 aprile 2017

LA PIAZZA di Peppe Murro


Non mi era mai piaciuto entrare lì, dove il fiato acido di vino indecente degli avventori si mischiava al fumo delle sigarette “nazionali” e al fritto di cipolla che veniva da una sorta di cucina arrangiata in un angolo; non mi era mai piaciuto, ma c’era la televisione e per noi era un avvenimento poter vedere la partita di calcio e i teleromanzi: almeno sino a quando il padrone non diceva “la televisione costa; che faccio ? spengo?” e allora tutti a ordinare un quarto e una gassosa per far tornare quella sorta di normalità di poveri che sapeva di evasione e di meraviglia.
E non ho mai saputo cosa succedesse al bar dei ricchi: era un angolo privilegiato, dove vedevi gente soddisfatta seduta all’ombra che fumava e rideva, guardando i passanti e spesso accompagnandoli con battute pesanti. Ma era il bar del gelato, quello buono, e per questo era guardato con desiderio e quando ci si entrava c’era un misto di soddisfazione e di senso di vittoria a “sprecare” 10 lire per un gelato.
Ce n’era anche un altro di bar, ma non rientrava nel nostro orizzonte di ragazzi.
Strana geografia della memoria… anche oggi i bar sono per lo più allo stesso posto, anche se ora gli avventori sono figure della modernità: gente che sorseggia drink e pilucca noccioline, mentre scruta con attenzione il passeggio, giovani che siedono a tavoli ingombri di bottiglie di birra o vecchi che occupano stabilmente le stesse sedie ogni giorno, facendosi scivolare sulla pelle il tempo.
E ancora, i ragazzi, al centro della piazza, anche loro padroni, come un tempo noi, di ogni angolo e di ogni voce, ma col pallone firmato e i giroskate a batteria, scivolando eterei dappertutto.
E la partita a scopa o a tressette forse riunisce ancora quattro giocatori ed otto osservatori attenti, quelli che ti spiegano le tue mosse sbagliate o le alternative che avevi, come se fossero loro i campioni del gioco…quella c’è ancora, magari in second’ordine, anche se più spesso trovi gli scacchi, dove chi guarda non ce la fa  a tacere e ti dice cosa fare, e ti dà del cretino mentre afferra il tuo alfiere e lo sposta sulla scacchiera, e lì discussioni infinite con altri campioni che credono di essere Spasskij o Fischer.
E’ cambiata poco la piazza, è ancora la pancia pulsante del mio paese, il luogo principe della socializzazione, dove ancora si discute di donne e politica, di calcio e motori, come se tutto si fosse cristallizzato in un quadro alla Dorian Gray, diverse maschere e stessa natura.
L’eterno ritorno dell’immobile, direbbe il maestro Mimì, e magari ci farebbe un’ultima tirata di fumo tra una risata arrochita e uno sguardo umido di malinconia.   
 

domenica 16 aprile 2017

IL BAMBINO CHE VOLÒ SULLE PENTIME di Tommaso Di Brango


Era bello, per Teresa Marescalchi, uscire di casa con in braccio suo figlio Luigi. Aveva partorito da due mesi e non appena metteva piede fuori dall’uscio si ritrovava attorno tutte le signore di via Scacchi che volevano vedere la creatura avvolta tra le fasce. Aquino, un tempo, era così: poche strade, l’amore di mamma e papà e l’attenzione di tutto il vicinato. Un giorno, però, accadde una cosa che Teresa non avrebbe più dimenticato.
Un anziano in bicicletta, infatti, andò per errore a sbattere contro la giovane donna che riuscì a non perdere l’equilibrio ma vide con orrore suo figlio Luigi sfuggirle dalle braccia e precipitare in fondo alle Pentime, il piccolo burrone che costeggia via Scacchi. Il signore le si avvicinò costernato con l’intenzione di scusarsi ma lei non si accorse per nulla della sua presenza e gridò con forza il nome di suo figlio mentre, con occhi lacrimanti e spalancati, guardava in fondo al burrone.
Luigi, molto probabilmente, non poté comprendere le grida di sua madre mentre cadeva. Di certo, però, lo scombussolamento subito lo spinse a piangere a dirotto, perché si ritrovò tutto d’un tratto a passare dalla calorosa quiete dell’abbraccio materno ai venti freddi che quel giorno spiravano sotto le Pentime.
Teresa fu raggiunta da suo marito Giovanni Raio, che lavorava a giornata per Fernando Sfangari ed era stato avvertito di quel che stava accadendo, e con lui si incamminò alla base delle Pentime. Erano entrambi terrorizzati da quel che si aspettavano di vedere, ma non potevano fare altrimenti: bisognava almeno recuperare il corpicino di Luigi per dargli la giusta sepoltura.
Quando giunsero sul posto, però, si trovarono di fronte a qualcosa di incredibile. Tra i cespugli, infatti, ebbero modo di ritrovare loro figlio che piangeva a dirotto e si agitava come un forsennato ma, grazie a Dio, era sano e salvo. Il vento gli aveva gonfiato le fasce in cui era avvolto rallentando la sua caduta e trasformandola in un lento e delicato planare.
Da quel giorno Luigi diventò, per tutti, il Zompa-Pentime.  

giovedì 13 aprile 2017

VERSO CANNETO di Vincenzo Pelagalli


“Affetti e pensieri
dell’anima mia…”
La Compagnia esce dalla Madonna della Libera intonando l’antico canto. Un canto in cui c’è tutta la fede, la devozione, l’amore che gli aquinati hanno sentito e sentono, di generazione in generazione, avviandosi in umile pellegrinaggio al Santuario di Canneto.
Chi resta, ascoltando il canto la notte della partenza, si sente preso da mille indecisioni e cerca di giustificare a se stesso l’assenza della Compagnia. Assenza che, in quei momenti, ha sapore di diserzione. E se ha la forza di resistere all’impulso di partire, quel canto, da richiamo, diventa evocazione. Evocazione di tempi lontani, di momenti, di volti, di voci.
Ritorna allora alla memoria il primo pellegrinaggio, cui ha partecipato, e, forse, anche il volto e la voce di chi per primo gli parlò di Canneto.
Io ricordo mia nonna. Mi parlava di sette montagne da salire e ridiscendere, di burroni, di cui non si vedeva il fondo; di un’acqua freddissima, che si doveva attraversare, non so quante volte, per diventare “comarelle”; dell’anello (o dell’orecchio) perduto in quell’acqua dalla Vergine e subito disciolto in mille stelline, che solo i meritevoli potevano ripescare, senza, peraltro, poter trarle fuori dall’acqua.
Mi raccontava del miracolo fatto dalla Vergine, quando un tale, non ricordo più chi, dopo anni che non riusciva più a dir parola, gridò, più forte degli altri l’Evviva Maria!, con cui la Compagnia salutava e saluta ancora l’apparire del Santuario. E qui la voce le s’incrinava un poco e gli occhi le si riempivano di lagrime.
Attraverso le parole di mia nonna ho vissuto il pellegrinaggio non una volta sola, ma cento volte, e mi sono diventate note le tappe e le soste della Compagnia.

 (Il brano è tratto da LA MIA CANNETO)

martedì 11 aprile 2017

ESTATE DELLA NOSTRA FANCIULLEZZA di Paolo Secondini



Giocavamo per strada, nelle sere d’estate della nostra fanciullezza. Correvamo, saltavamo, gridavamo, sotto un cielo trapunto di stelle, nel mezzo del quale splendeva il viso rotondo, argenteo della luna.
«Non mi prendi, non mi prendi.»
«Di là, di là.»
«Son qua.»
«Ahi!»
«Non lasciarlo.»
«Sì, sì!»
«Acchiappalo, acchiappalo!»
«Non farlo scappare.»
«Oh!»
«…otto, nove, dieci: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori.»
«Ehi, ehi.»
«Uh! Oh!»
«Buuuuuuuuh!»
«Tana libera tutti.»
«Uno, due, tre, stella!»
«Regina reginella, quanti passi devo fare per venire al tuo castello con la fede e con l’anello, con la punta del coltello?»
Le nostre voci si alzavano acute, attiravano il lento guardare degli adulti – uomini e donne –, al fresco sull’uscio di case popolari.
Essi narravano fatti di tempi lontani: fatti ora lieti, ora tristi, che non suscitavano il nostro interesse, come invece in altre occasioni, quando immobili, assorti, il fiato sospeso, sedevamo per terra ad ascoltare.
Non paghi di giochi e di allegria, guardavamo gli adulti a nostra volta, sperando vederli sempre là per moltissimo ancora: vederli parlare, ridere… piangere anche.
Ma quando l’ultimo d’essi rincasava, rincasavamo anche noi, ciascuno chiamato dalla mamma:
«Antonio!»
«Lidio!»
«Lisa!»
«Mario!»
«A casa!»
«È tardi!»
D’un tratto deserta e silenziosa, la strada pareva che dormisse, sotto il cielo trapunto di stelle… nelle sere d’estate della nostra fanciullezza.

 

domenica 9 aprile 2017

IL SORRISO DELLA MEMORIA di Camillo Marino

Un vecchio adagio recita: “i sogni belli non si realizzano mai!”
Non è sempre così, a volte si avverano e son capaci a farci vivere favole realmente.
Io ed Alfonso di nuovo insieme dopo circa quarant’anni! Quel lontano soggiorno ad Amalfi in visita ai parenti con mio padre è rimasto indelebile nella mia mente.
Rivivo nel ricordo dei racconti di mio padre i suoi anni trascorsi ad Amalfi nella cartiera di zio Francesco Marino, in località “a’ Ferrera”.
Sabato, 9 aprile, scaliamo il lungo, ripido sentiero che ci spegne il fiato, nella mitica e stupenda Valle dei Mulini. Mi è impossibile non notare i ricchi terrazzamenti, stracolmi di meravigliosi limoni; la primavera è già visibilmente avanzata, un profumo non facile da descrivere mentre avverto l’atmosfera di un desiderio troppo grande da appagare che m’accompagna verso la meta prefissata.
Ancor prima d’arrivare incrociamo numerosi altri opifici abbandonati. Costruzioni concepite e realizzate al limite della follia della ragione umana: un miracolo di volontà, di arditezza, d’ingegno, di laboriosità. Penso, strada facendo, alle immani fatiche profuse dai nostri predecessori, intese a far giungere quassù le materie prime, i materiali, i macchinari, tutto ciò che occorreva alla produzione della carta. Incredibile, ma qui hanno vissuto e lavorato varie generazioni di amalfitani!
Fra di essi i miei antenati.
Mentre saliamo avverto idealmente la presenza di mio padre, come se fosse vicino, a istruirmi, a parlarmi dei luoghi a lui tanto cari, a raccontarmi tanti piccoli episodi di quella parte della sua vita nella cartiera di zio Ciccio.
Ed eccoci arrivati innanzi alle mura della cartiera che fu di zio Giovanni Marino, nonno di Alfonso e fratello del mio bisnonno. Ruderi soltanto, pietre che si elevano come un monumento nella folta vegetazione. In questa magica, irripetibile Valle dei Mulini, tra i suoi sentieri è facile fantasticare di una giornata di intensa attività lavorativa tra maestranze vissute tanti anni fa.
Continuando l’ascesa verso “a Ferrera”, Alfonso mi indica l’ex cartiera del mio trisavolo e omonimo, Camillo Marino, morto, a quanto mi ha raccontato l’anziano e illustre cartaro Nicola Milano, in seguito a un incidente occorsogli nella sua stessa cartiera.
L’emozione è inimmaginabile. Un addensarsi di sentimenti, di forti sensazioni si sono impadroniti di me. Sembro calmo, ma l’agitazione dell’anima rivela sul mio volto, di sicuro, l’emozione. Il pellegrinaggio arriva al suo culmine.
Siamo davanti alla cartiera che fu di Francesco Marino. Risolviamo qualche problema di poco conto nello scendere i gradini di pietra dell’antica scalinata che porta al piano della cartiera. Subito entriamo nel mezzo di una stanza e molto bene riconoscibili ci appaiono resti di macchinari: la pila olandese con ancora quasi intatta la ruota dentata; quindi la batteria dei magli che serviva a sfibrare la carta straccia, la pressa con la sua decrepita struttura lignea ma con l’ancora accettabile madre vite.
Nel mucchio dei resti di arredi si notano telai di porte e finestre, insieme ad altre strutture di legno, mentre, inconfondibili, vedo due ruote di granito che animavano una molazza di media grandezza. Provo immediatamente stupore e incredulità per come tali ruote siano giunte quassù, considerando, il loro non trascurabile peso! Scattiamo, avidamente, foto di gruppo: mio figlio Luigi, mio fratello Franco, Alfonso, sua moglie, suo figlio Nicola. Continuiamo a girare nei diversi locali e scopriamo quello che fu la cucina della cartiera Marino.
Noto con sorpresa e non poco meraviglia, quasi intatte, alle pareti, belle maioliche di foggia “antica”. La tentazione di far mio un originale souvenir è fortissima, per cui, dopo essere riuscito a procurarmi un rudimentale pezzo di ferro, in pochi secondi stacco dal muro alcune mattonelle che ho cura di sistemare nella borsa-custodia della macchina fotografica. “Le preziose reliquie” andranno ad aggiungersi alle altre numerose maioliche che conservo a casa e che ho trovato frugando in vari mercatini di antiquariato. Esse, indipendentemente dalla loro bellezza e valore venale, assumono, per me, un concetto e un ricordo del tutto particolare.
Continuando a cercare affannosamente altri oggetti che potessero avere un certo significato, ho potuto raccogliere, nel mucchio di materiale demolito, una manovella di metallo con impugnatura in bachelite. Chissà quanti e quali mani hanno mosso questo misterioso attrezzo. Non si può nemmeno escludere che sia finito nelle mani di mio padre!
La fantasia non ammette confini e fra me alimento congetture: mentre esploro tra i ricordi mi sembra rivedere mio padre quando si eccitava parlando con calore e passione della sua famiglia, di Amalfi, della cartiera.
I miei compagni di viaggio sono intanto sul sentiero. Sento le loro voci. Io, invece, mi trattengo ancora fra i ruderi ed i macchinari dell’antica fabbrica a cercare qualche altro, interessante, souvenir da portare con me per meglio suggellare una giornata difficile da dimenticare.
Sento la voce di mio figlio che mi chiama e anch’io, rispondendo e rassicurandolo, mi avvio alla risalita.
Sui muri d’ingresso della cartiera leggo alcune firme bene impresse nella nuda pietra che lasciano capire le visite precedenti di Antonio, fratello di Alfonso, che come lui vive in Inghilterra. Alfonso mi dice che, per loro, tutte le volte che ritornano ad Amalfi, la visita alla fabbrica paterna è un rito che si ripete come un pellegrinaggio.
E’ quasi sera, le nubi si sono fatte minacciose e ci sollecitano prudentemente a intraprendere la via del ritorno. Le emozioni però non sono finite.
Scendendo la Valle dei Mulini rivedo il terrazzo della casa di Alfonso, situata nei pressi di un’altra piccola cartiera, che pure fu di suo padre. Su quel terrazzo, poco più che bambini, abbiamo vissuto gioiosamente e simpatizzato per alcuni giorni, all’ombra di un fitto e rigoglioso pergolato, stesi su strisce di ferro appese come amaca.
Poi un lungo silenzio durato quarant’anni! Ore sparite, sfumate nel nulla, spazzate via dalle vicende delle nostre rispettive vite.
Oggi 9 aprile 1994 il piacere, un grande piacere, di averle potuto rivivere assieme, col sorriso nel cuore, quello della memoria.

sabato 8 aprile 2017

NOZZE E BINARI di Tommaso Di Brango



Ogni bella rosa ha le sue spine e gli Sfangari non facevano eccezione. Si può dire che erano i padroni di Aquino, tanta era la terra che si tramandavano da generazioni e la gente che lavorava alle loro dipendenze; ma certo, per tenere in mano tutto quell’impero bisognava scendere a compromessi spesso poco onorevoli. Per questo motivo si era deciso che Rinaldo e Michele, ovvero i due Sfangari maggiori, avrebbero sposato delle lontane cugine di Esperia, mentre Fernando, il terzogenito, sarebbe rimasto senza moglie. Tutta quella roba non poteva finire in mano agli estranei.
Queste scelte portarono ai primi due Sfangari una progenie debole di salute o di mente e indussero il terzo a frequentare le contadine alle sue dipendenze, tanto che si è perso il conto delle ragazze e dei ragazzi di Aquino che sembravano aver tagliato la testa a Fernando pur senza portare il suo stesso cognome. Lui, del resto, non aveva mai voluto spedirle dagli spilloni delle mammane, perché pur essendo un donnaiolo restava comunque un galantuomo e riteneva che con un po’ di soldi passati sottobanco avrebbe potuto garantire la crescita dei figli e il silenzio delle madri.
Avrebbe mai pensato, Giuseppe, che tutta questa storia avrebbe permesso a suo fratello di diventare parente degli Sfangari? Ovviamente no e, anzi, se qualcuno gliel’avesse detto lui si sarebbe sentito preso in giro e gli avrebbe dato pure il fatto suo. Così, quando suo fratello tornò a casa e gli parlò della proposta ricevuta, lui si sentì prossimo a svenire.
In pratica Fernando Sfangari in persona si era mosso per chiedergli di sposare Mariella Rosi, l’unica sua figlia rimasta senza marito. Lui era ormai anziano, i soldi gli servivano per curarsi e aveva bisogno di sapere che c’era qualcuno in grado di pensare a lei. In cambio il vecchio avrebbe smosso alcuni suoi contatti per consentire al genero di entrare in ferrovia, perché stavano costruendo la linea e c’era bisogno di manodopera.
Nessuna notizia poteva essere migliore di quella.

giovedì 6 aprile 2017

L’AEROPORTO HA NOVANT’ANNI. FORSE CENTO di Costantino Jadecola


(Foto: Planimetria dell’area occupata in origine dal “campo di fortuna” di Aquino a margine di via Marconi )

Secondo qualcuno era il 1917, e quindi era ancora in corso la Grande Guerra, quando ad Aquino s’incominciò a parlare di areoplani. Ma perché? Perché una specifica commissione a ciò preposta avrebbe individuato in questa località, così come in prossimità di Frosinone, altrettante aree che ben si sarebbero potute utilizzare, ovviamente previo opportuni adattamenti, per il decollo e l’atterraggio degli aerei.
Se così fosse, dovremmo apprestarci quanto meno a programmare eventi per celebrare come si conviene il secolo di vita dello scalo aquinate e di quello frusinate. Il guaio è, però, che, al di là di ciò cui si è accennato, mancano ulteriori fonti a riguardo, cosicché per forza di cose bisogna procrastinare il centenario almeno di una decina di anni e accontentarsi semmai di celebrare i novant’anni se è vero che, intorno al 1926, come si legge in un giornale del tempo, ad Aquino è stata “prescelta una zona molto propizia e adatta per il campo di Aviazione, in cui, l'altro giorno, assai felicemente ha fatto il primo atterraggio il IV apparecchio della 181 Squadriglia di Esplorazione, ricoverato nel magnifico hangar. Si attendono altri apparecchi. Il campo stesso è fornito di stazione radiotelegrafica.
A conferire poi ulteriore credibilità a questa notizia ci sarebbero i documenti in possesso dell'Ufficio Storico dell'Aeronautica Militare dai quali si apprende che “l’Aeroporto di Aquino, sotto la data del 25 novembre 1926 venne classificato ‘campo di fortuna’ alle dipendenze del Comando Aeroporto di Capodichino (Napoli).
Ma sono soprattutto i giornali del tempo - ed è facile comprenderne il perché - a dedicare grande attenzione al “campo”.
Su Il Mattino di Napoli (19 agosto 1926) si legge: “Da alcuni giorni ha incominciato a funzionare questo campo di atterraggio per aeroplani con annessa stazione radio. Il primo apparecchio a discendere è stato l’R2-8525 proveniente da Napoli (Campo dì Capodichino) che è stato entusiasticamente accolto dalla popolazione che era convenuta qui anche da comuni limitrofi.
“Presto il campo sarà corredato di tutto il necessario materiale per divenire scalo intermedio di velivoli fra Campino e Capua.”
Un altro cronista annota: “Aquino ha cambiato il volto ed è diventata una cittadina allegra e civettuola che la sera si attarda fuori dalle abitazioni; essa ha l’onore di ospitare la 121ma squadriglia di aviazione il cui comandante è il valoroso capitano ed abile pilota Attilio Crotti. Gli altri ufficiali e sottufficiali, che danno vita ed allegria ad Aquino, sono: maresciallo Guidi, serg. magg. Monti, Pepe, Mosca; piloti: cap. Zanchi R. E., cap. Ricci R. E., tenente Napoleoni R. A.; ten. Mallucci R. E., osservatori; maresc. Monti fotografo. Vi sono, inoltre, due motoristi. Ci siamo ieri con i colleghi Minci, Guarracino e Renato Spano e con l’Avv. Bruno Rocchi, con l’automobile del sig. Gennaro Bruno, personalmente da lui guidata, recati ad Aquino per osservare il campo di aviazione.
“Mancavamo da Aquino da tre mesi appena”, scrive, ancora, l’anonimo cronista su un giornale ugualmente anonimo, “e con nostra somma meraviglia ed ammirazione abbiamo visto il campo di aviazione, detto ‘di fortuna’ totalmente trasformato e ciò per l'opera tenace, intelligente dell’ottimo comandante Crotti, simpatica figura di pilota e di settentrionale. Il comandante ci ha ricevuti con somma cordialità e ci ha fatto visitare gli apparecchi (in tutto 5). Ci ha parlato del modo con cui e riuscito, con la sua tenace volontà, a trasformare l'hangar, due mesi fa abbandonato a se stesso e quasi inesistente. Ha munito il campo di apparecchio telefonico, radiotelefonico (sicché quando si vola si sta in costante comunicazione col campo stesso), di frecce indicanti la direzione verso cui gli apparecchi devono atterrare e di tante altre piccole cose che fanno di questo campo aviatorio uno dei più importanti e meglio impiantati.”
Su un altro giornale del tempo si legge: “Questa base di aviazione, dove ben sette apparecchi della 131.ma Squadriglia di ricognizione hanno preso parte alle esercitazioni completive dei tiri di artiglieria nelle località della limitrofa Pontecorvo in questa ridente valle del Liri, ha ricevuto elogi e congratulazioni per il disimpegno delle loro mansioni dì concorso alla manovra medesima. Ed intanto ci compiacciamo con i solerti comandanti capitano Ferroni e Martorana, nonché con tutti gli altri ufficiali e sottufficiali della simpatica squadriglia che tanta vita da a questo paesetto ma non possiamo trascurare il corpo degli specialisti i quali con grande zelo concorsero alla bella e brillante riuscita, come il motorista Daniele Luigi Natiello, i montatori Pirrozzi Gennaro e Vegliarne Mario, il telegrafista Neri Alfredo, il capo movimento Baldisserotto Pietro nonché il furiere Frau Salvatore.”
Il campo di aviazione è, insomma, per Aquino, il fatto nuovo. Che appassiona ed incuriosisce gli Aquinati e nello stesso tempo stimola la fantasia non solo dei cronisti ma anche di chi, nel decantare le bellezze della propria terra, in un manoscritto vergato in bella grafia ed anonimo anche questo, a proposito dell’aeroporto afferma che esso “conferisce all’antichissima città un’importanza nuova ed una variata bellezza per il contrasto tra le rovine del magnifico passato e le metalliche e volanti e superbe costruzioni del presente che saranno ancora più superbe nel futuro. Infatti è di notevole significazione, estetica e storica, vedere una grande aquila fabbricata dalla mano dell'uomo d’oggi rombare gagliardamente nell'azzurro del cielo conquistato, al di sopra di vecchie muraglie ammantate di edera, sulle quali sono caduti tanti secoli e presso le quali si svolsero trame di drammi giganteschi. Ed è bello, mollo bello, ammirare con occhio d’artista l’azzurro aviere dagli occhi di fanciullo e dal polso d’acciaio che siede, a sera, pensoso e taciturno, sulle pietre divelte di un tempio millenario.”
Deve precisarsi che la zona “molto propizia e adatta” di cui parla uno dei cronisti non è quella oggi comunemente intesa come aeroporto bensì quell’area, per una superficie totale di circa venticinque ettari, posta a sinistra di via Marconi, la strada che conduce al cimitero, grosso modo compresa tra l’altezza di via Turati e il cimitero stesso e delimitata sul lato opposto dalla vecchia ferrovia.
Il campo di Aquino utilizzerà quest’area finché non verrà realizzato il nuovo impianto che potrà avvalersi di una superfice molto più estesa dominata dall’antica Torre di San Gregorio, un tempo cella benedettina ma poi sacrificata perché di ostacolo all’attività aerea.
La costruzione del nuovo aeroporto inizierà nel 1937 e non sarà ancora conclusa quando la notte del 19 luglio 1943 l’impianto, comunque operativo, subirà il primo di una lunga serie di bombardamenti aerei da parte dell’aviazione alleata.
Sarà il primo atto bellico in assoluto che di fatto segnerà l’inizio della lunga stagione della guerra nel Lazio meridionale.
Un evento, insomma. Che le autorità locali, tranne qualche rarissima eccezione, ma soprattutto perché sollecitati, non hanno mai considerato come tale, alla stregua, del resto, del loro disinteresse per una rivitalizzazione dell’impianto stesso. E non solo.

 

martedì 4 aprile 2017

IL CEPPO DI NATALE di Vincenzo Pelagalli


In casa di nonno Livio, muratore, s’incominciava a pensare al Natale già dai primi di settembre, quando, dopo la festa di San Costanzo, arrivavano i carri con la legna per l’inverno; generalmente erano tre: due di legna grossa, che poi doveva essere spaccata, ed uno di sciappe, schiappe: schegge di legno, residui di grossolana squadratura di pezzi marini.
Tutta la famiglia s’impegnava nell’accatastarla: i grandi si occupavano di quella grossa e i piccoli, una schiera di cugini, delle sciappe; mentre la sistemavano al riparo, si sceglieva quella da bruciare a Natale e si accatastava a parte.
La scelta del ceppo avveniva nei giorni successivi ed era particolarmente laboriosa: nonno esaminava uno ad uno i probabili ceppi, lo sceglieva e non se ne parlava più.
Il fuoco che s’accendeva la sera della Vigilia assumeva un valore particolare. Nel camino, che era stato pulito il giorno prima per evitare che facesse qualche brutto scherzo, si bruciava la quantità di legna che normalmente si consumava in una settimana.
Nella mente di mio nonno quel fuoco doveva essere grande, durare tutta la notte, per riscaldare non solo quelli di casa, ma anche la Madonna e San Giuseppe, che in quella notte vanno in cerca di un riparo per far nascere il bambino, e, dopo il Gloria della Natività, il Bambinello appena nato.
Per questo la preparazione e l’accensione erano qualcosa che nonno riservava a sé: egli eseguiva, in silenzio o parlando a bassa voce, le necessità, come stesse celebrando un rito solenne.
Per lui era un rito solenne, perché era lui il padrone di casa che, preparando accuratamente con le sue mani, ed accendendo quel fuoco, invitava la Sacra Famiglia a sostare davanti a quel camino, a riscaldarsi a quel fuoco ed a benedire tutti quelli di casa.
Mentre il fuoco prendeva vita, nonno, quando pensava che nessuno lo vedesse, frettolosamente si segnava, ma tutti sapevano che era commosso. Nonna, allora, gli chiedeva: «Liviù, che si fatte?» e lui: «Nnammarì, è Natale» e andava a prendere posto a tavola per il cenone, mentre, per un attimo, il suo pensiero ed il suo cuore erano lontani.

 

domenica 2 aprile 2017

CANDELORA di Paolo Secondini

1958.
La vide alzarsi di primo mattino, nello stesso momento in cui anch’egli si levava dal letto per iniziare, nei campi, una nuova giornata di lavoro. Poi la vide indossare, con gesti lenti e meticolosi, i soliti abiti scuri, e infine, seduta al tavolo della cucina, sorseggiare un bicchiere di latte appena munto, e mangiarvi assieme un pezzo di pane.
Quel giorno, due febbraio, lei si sarebbe recata, come ogni anno, ad Aquino – che dal casolare distava alcuni chilometri –, precisamente alla chiesa della Madonna della Libera, per assistere a una tradizionale funzione religiosa.
Sarebbe tornata a casa alla fine di questa, con in mano una candela benedetta: una lunga candela bianca e sottile da accendersi solo nei giorni di maltempo, affinché la Madonna preservasse il raccolto dalle intemperie: fulmini, grandini e altro.
Quel giorno della Candelora, tutti, soprattutto i contadini – che speravano sempre, per la loro gravosa attività, nella clemenza del tempo – occorreva che andassero a messa.
La donna, che sentiva impellente quest’obbligo, salutò suo marito e gli disse che l’avrebbe raggiunto più tardi nei campi, per portargli, come ogni volta, il pranzo nel cestino di vimini.
Quindi si alzò dal tavolo e, senza aggiungere altro, uscì di casa.
Malgrado facesse molto freddo, si avviò verso Aquino, con la testa e le spalle avvolte nello scialle, con l’animo colmo di devozione.