lunedì 3 settembre 2018

UN INCIDENTE di Peppe Murro


Sono andato via molti anni fa, ma questa parte di Aquino mi è rimasta nel cuore, perché qui sono nato e qui ho vissuto la mia fanciullezza. Così oggi, quasi per una insopprimibile nostalgia, mi sono incamminato lentamente per la salita della parte vecchia del borgo: che differenza da come lo ricordavo! le case sono belle e ben tenute, io invece ricordavo muri sbrecciati e case tenute in piedi da una disperata voglia di resistere.
È tutto più bello, ma mi si stringe il cuore a vedere che vi abitano poche persone. Una volta era un brulicare di voce e di richiami, di rumori; oggi è tutto tranquillo, tanto da attirare, e forse ho disturbato, anche qualche coppietta.
Sono arrivato al primo spiazzo, quello da cui si può ammirare la fossa delle Pentime: ricordo che sotto il portico c’era un forno, con un profumo del pane caldo che si spandeva attorno; di fronte alle scale che salgono a sinistra, c’era una fontanella di ferro, di quelle che si usavano per il pubblico: lì una volta trovai Pinuccio che piangeva tutto bagnato, con le mani nell’acqua a cercare di raccogliere una barchetta di foglie di canna intrecciate, bagnandosi sempre più. Lo aiutai e, in uno slancio del poco altruismo che hanno i ragazzi, lo accompagnai su per le scale.
La porta era aperta, una pesante coperta legata ad un filo per tenda: sbirciando vidi il vecchio calzolaio che in fondo, vicino ad una finestrella, batteva furiosamente un martello su una scarpa. Mi era sempre piaciuto quel locale, basso, con una volta a botte, credo l’unica sopravvissuta del vecchio castello. Oggi mi rendo conto con tristezza che la proterva ignoranza o la ferocia idiota dei tempi cosiddetti moderni al posto di quella testimonianza ha lasciato un buco vuoto, come una bocca spalancata sul niente.
Mi scuoto e passo oltre. Arrivo a quello che era il nostro regno, quella che oggi è la piazzetta dei conti d’Aquino: a destra c’è ancora l’arco di una porta sprangata perché con una scala portava giù alle Pentime, ma era di legno e tutta marcia, perciò pericolosa e proibitissima, pena scapaccioni a volontà.
I nostri giochi infatti si svolgevano quasi tutti su quello spiazzo polveroso, fra rottami arrugginiti e sterpaglie (non si direbbe a vedere oggi la piazzetta), facendo partite di calcio con un pallone perennemente sgonfio, con le porte sul limite, dove lo spiazzo scendeva con un declivio ripido verso il basso, fra sterpaglie e un deposito di non ricordo cosa.
Lì giocavamo, pressoché sempre, io, Angelo, Tommaso e Tonino. Un giorno a quest’ultimo, che era il più sveglio ed audace, venne una grande idea, la scivularella: c’erano fogli di cartone molto spessi; lui ne prese uno, lo sistemò sul bordo della discesa e, con un colpo di reni, si buttò giù, sollevando più invidia e stupore che polvere. Non fece in tempo a risalire che i suoi emuli era già pronti per la sua stessa avventura. Angelo ci rimise pure il fondo dei pantaloni, ma facemmo più volte lo stesso gioco, impolverati e sudati, finché al solito Tonino venne una nuova idea geniale: c’era un muretto semidiroccato all’angolo del nostro improvvisato scivolo; Tonino sistemò di nuovo il cartone sul bordo, salì sul muretto e con un balzo si scagliò sul cartone a velocità impressionante.
Andò giù urlando di gioia e di vittoria. E voi che avreste fatto? Guai a non fare la stessa cosa! Salì Angelo sul muretto, centrando cartone e discesa; poi toccò a me, e andai a finire col cartone accanto a un cespuglio di ortiche. Mentre mi grattavo furiosamente, vidi Tommaso che aveva sistemato il cartone, guardandolo come un cacciatore che mira ad una quaglia. Salì sul muretto e spiccò il salto.
Le nostre risate di soddisfazione e il suo urlo di dolore si levarono insieme come una bomba: arrivò giù urlando tenendosi il braccio in modo strano: seppi dopo che si era rotto il polso battendolo sul ginocchio.
Alle sue grida corsero degli adulti, aiutarono Tommaso a risalire, cercando di consolarlo; qualcuno disse che bisognava portarlo al pronto soccorso di Pontecorvo. Mi viene da sorridere oggi, pensando che Angelo e Tonino se l’erano squagliata e con Tommaso e gli adulti ero rimasto, con molta apprensione, solo io.
Venne il padrino di Tommaso, venne l’auto, venne la madre di Tommaso.
Non so perché fecero salire anche me accanto al guidatore, forse per consolare Tommaso. Ai sedili di dietro, il padrino e la madre di Tommaso, in mezzo lui che piangeva e si lamentava.
Non ho mai saputo se Tommaso piangeva e si lamentava per il dolore del polso rotto o per le sberle che la madre gli andava rifilando ad ogni singhiozzo: “delinquent, je t’accide, tu si la ruvina mia” e giù scapaccioni.
A un certo punto il compare sbotta: “E no, cummà, accusì nze fa!”.
 E zitte cumpà, stu disgraziat me sta a levà la salut” e giù altre sberle, mentre con un grande fazzoletto si asciugava le lacrime.
Ricordo che m’ero accucciato fino a scomparire, in basso sul sedile, mentre con sollievo pensavo:
Minu mal ca la man nc’era la mia…

1 commento:

  1. Dopo la pausa estiva, il blog Cronache Aquinati riprende le pubblicazioni... e le riprende con un bellissimo scritto, nostalgico e anche commovente e di sapore tutto aquinate, dell'amico Peppe.
    A quanti desiderano collaborare con Cronache non devono che inviare i loro scritti all'email che troveranno in CONTATTI.

    RispondiElimina