lunedì 29 maggio 2017

C’ERA UNA VOLTA LA SERENATA di Camillo Marino

Molto raramente, oggi, si fa ricorso alla serenata per trasmettere un messaggio d’amore, un sentimento affettuoso alla persona cara, oppure per fare omaggio a qualcuno in occasione di un evento o in momenti particolari: la nascita di un bambino, il conseguimento di un titolo di studio, un risultato brillante alla prova di un concorso, la vigilia delle nozze ecc.
Gli esempi si potrebbero allungare.
Una cosa è certa: rispetto a qualche decennio fa la serenata, assieme a tanti altri aspetti di costume, è oggi scarsamente praticata.
Chi, dai nostri antenati, non ha sentito raccontare di serenate appassionate dedicate al chiarore lunare alla persona amata?
Non di rado accadeva ricevere sulla testa abbondanti annaffiate di “liquido” non sempre potabile, che veniva scaricato sul “concertino” da qualche vicino seccato per il disturbo subito nell’ascoltare le serenate, per quanto eseguite con grande impegno e foga.
In passato la serenata era una cosa molto seria, veniva fatta di frequente con la speranza di giungere a segno, di mettere a frutto l’esibizione, di ricevere non soltanto consensi, ma anche di fare breccia nei sentimenti della persona desiderata.
È anacronistico pensare, al di fuori di un revival soltanto, che la serenata possa tornare ad essere il mezzo più efficace per promuovere una relazione amorosa. Gli oggetti, le cose che non si usano più hanno avuto lo stesso destino dei fatti di costume del passato: sono stati travolti dalla civiltà del consumo e del benessere.
Occorre una inversione di tendenza, l’esigenza, il tangibile piacere di riscoprire cose, costumanze, modi di essere di una volta, patrimonio prezioso per la nostra cultura.

venerdì 26 maggio 2017

5 LIRE di Peppe Murro

 
Era il tempo in cui Berta filava, o giù di lì: Aquino finiva “agli stracciun” e “le pentime” era un luogo proibito.
C’eravamo solo noi, soprattutto “quelli delle case popolari” e “quelli della piazza”, figli del dopoguerra e della fatica di ricostruire. Torme di ragazzini urlanti, padroni del paese, che si scontravano e se le davano, giocando a “indiani e cowboys”, quasi in un’edizione paesana de “i ragazzi della via Paal”.
Scoprivamo piano il paese, come un’angusta prigione, fra il campo sportivo in terra rossa, dove Giggione era sempre pronto a urlare se ci si nascondeva tra le spighe di grano, e lo scivolo della calce idrata, che ti faceva provare l’ebrezza del proibito e della velocità quando si saltava da un muretto su pezzi improvvisati di cartone scivolando giù per il pendio, giocandosi il cartone e spesso anche il fondo dei pantaloni.
Ma il nostro vero regno era la piazza; e prima che don Pasquale ci sorprendesse tutti col suo alzarsi la tonaca e mettersi a giocare a pallone con noi sullo spiazzo della chiesa, accanto al monumento ai caduti con la sua memorie di ruggine della guerra, incagliata su quattro resti di bombe, il nostro gioco era il “giro di Francia”, gare interminabili fatte sui gradini della chiesa spingendo dei tappi di birra o di gassosa, i testareglie, con tiri prolungati facendoli con destrezza saltare da un gradino all’altro sino all’arrivo.
Il vero gioco, però, erano le interminabili e accanite partite di calcio giocate sulle panchine di marmo dove qualcuno aveva segnato, con matite o gesso trafugato a scuola, un vero campo di calcio, con tanto di porta, centro ed area di rigore: si trattava di fare goal lanciando con destrezza un testareglie nella porta avversaria.
Inutile dire delle lunghe contestazioni quando cadeva di lato ed era fallo laterale o qualcuno barava spostandosi in una migliore posizione: si litigava per un goal non assegnato o una punizione non data, si lanciavano i tappi sapientemente sagomati dal centro alla porta avversaria o tentando talvolta tiri arditi da porta a porta che quasi immancabilmente facevano volare i tappi giù dalla panchina; e alle rimesse in campo erano altre litigate. Ed alla fine era quasi sempre la “Juve” a vincere.
Quel giorno fu speciale.
Io e diversi altri sconfitti assistevamo, spettatori e controllori al tempo stesso, alla finale del “campionato del mondo” fra Umberto Bebbè e Giampaolo Schizzett. Era una partita tanto importante che c’erano tutti, quelli delle Crucela, quelli della Piazza e di Via della libertà, persino quelli delle Pentime: vinceva chi arrivava primo a fare 6 goal, chissà perché… e si era su un importante 5 a 4.
 Bebbè si preparava a tirare da un provvidenziale fallo laterale nella metà campo di Schizzett: se segnava aveva vinto.
Si fece silenzio, Bebbè preparò il dito indice per il tiro, guardò bene la porta avversaria e “Scusate, se vi interrompo, c’è tra voi ragazzi qualcuno che vuole aiutarmi a portare a casa le valigie?” Era un carabiniere grande e grosso, con la fronte sudaticcia sotto la visiera e tutto abbottonato nella divisa. “Se qualcuno mi aiuta gli do 5 lire”.
5 lire… non bastavano neppure per un gelato piccolo: facemmo finta di non sentire, tutti a testa bassa, fintamente interessati alla partita. “Allora? Non c’è nessuno?” ripeté sudato il carabiniere.
Vengo io” si sentì da un angolo.
Chissà perché ci girammo tutti, Bebbè si alzò dritto e quasi si mise a ridere: aveva parlato Peppin Gliu mup, un ragazzo delle pentime, tanto minuto e mingherlino che a spingerlo volava via e che prendevamo sempre in giro dicendogli “te si misse le pret ‘nsaccoccia?
Vengo io” e si avvicinò al carabiniere.
Quello lo guardò e, soppesandolo, gli indicò una valigia visibilmente più piccola di altre. “Va bene, porta quella”.
Non so perché stavamo tutti a guardare, forse per vedere come andava a finire, magari pronti all’immancabile sfottò.
Il milite si caricò una valigia per mano e una borsa sotto le ascelle e disse: ”Andiamo
Vedemmo Gliu mup afferrare la maniglia della valigia con una mano, poi con tutt’e due, stringendo i denti per sollevarla.
Provò una volta, due: la valigia sembrava incollata per terra. Provò pure ad abbracciarla, ma niente, la valigia non si muoveva. Qualcuno di noi ridacchiava sommessamente.
Il carabiniere si voltò, guardò Peppino che lo guardava smarrito; poi guardò noi: “Va bene, fa niente, le 5 lire te le do lo stesso”. Mise la mano in tasca, gli consegnò la moneta e con un movimento da ginnasta riuscì a mettersi la valigia sotto l’ascella libera. Lo vedemmo allontanarsi sbuffando un po’ sotto il sole di quel luglio arroventato.
Molti occhi erano fissi su Peppino Gliu mup, lo vedevamo stringere in mano quella moneta con un’espressione indescrivibile che allora non capimmo. Qualcuno già si preparava a prenderlo in giro… “neppure un gelato da dieci ci usciva, al massimo una girella di liquirizia”.
Finché il più feroce tra noi, o forse il più disincantato, sbottò con un “nèh, e che ce fai mo’ cu tutt ‘sti sold?
Serio, serrando sulla mano quel tesoro, “glie port a mama, ca ce fa la spesa” rispose Peppino Gliu mup. E andò via verso le Pentime
Per la sorpresa, forse, o per un inaspettato senso di colpa, a nessuno di noi interessò più la finale del campionato.
La partita la ripetemmo il giorno dopo.
Vinse Schizzett.  

martedì 23 maggio 2017

VITA IPOTETICA NEL PALAZZO COMITALE DI AQUINO di Paolo Secondini

Nel XIII secolo, ad Aquino, nel sontuoso palazzo comitale, situato entro le mura del castello, doveva condursi un’esistenza piacevole, dal momento che i conti d’Aquino costituivano una famiglia ricca e potente che, probabilmente, non disdegnava agi né lusso, simboli anch’essi di magnificenza.
C’è da supporre pertanto che nel suddetto palazzo, quando la mente del signore era sgombra da assilli dovuti a questioni economiche, giuridiche, amministrative o a seri problemi militari, i giorni si susseguissero in modo assai lieto.  
Spesso la nobiltà si dava convegno alle feste che il castellano organizzava, con magnanimità, per ricorrenze speciali o in occasione di matrimoni, nascite e battesimi; feste che si svolgevano solitamente in ampie sale, alle cui pareti pendevano arazzi e tende di seta o di velluto.
Quelle feste erano caratterizzate da danze al suono di flauti, ghironde, vielle, tamburi, come anche da lauti banchetti allietati, quest’ultimi, dai lazzi di buffoni, dai giochi di acrobati e prestigiatori.
In questa atmosfera di spensierata allegria, gli occhi dei cavalieri erano attratti dalla sublime bellezza delle dame, splendide nei loro vestiti intessuti di fili d’oro e d’argento, tempestati di rubini e, talvolta, guarniti con pellicce di lontra o di ermellino.
Di carnagione bianchissima, ottenuta mediante una mistura di biacca, miele e polvere di piombo (che a lungo andare, però, deturpava irrimediabilmente la pelle), le dame avevano lunghi capelli raccolti sulla nuca o in crocchia sul capo e avvolti in veli o in reti colorate; la fronte adorna di un ricco diadema e il collo cinto di una collana di perle o di smeraldi.
Per far breccia nel cuore della dama, il cavaliere metteva in atto studiati stratagemmi, come quello di umiliarsi, genuflettersi, giurare fedeltà assoluta, offrire con spirito d’abnegazione i propri servigi, la propria vita, dichiararsi, oltreché servitore, prigioniero di lei. Se la dama cedeva alle lusinghe del suo corteggiatore ne diventava, a sua volta, prigioniera, dando inizio così a un vero e proprio rapporto di vassallaggio (lo stesso che, in sostanza, esisteva tra feudatario e signore), che la impegnava a rendere al cavaliere tutto ciò che da lui riceveva: erano queste le norme galanti, inderogabili dell’amor cortese.
Per le dame i menestrelli, con indosso cappello – spesso piumato – e indumenti sgargianti, intonavano dolci canzoni melodiche, accompagnandosi con il salterio o il liuto; per esse i trovatori declamavano sonetti e madrigali traboccanti d’amore.
Ci piace immaginare che anche il fratello di Tommaso d’Aquino, Rinaldo (ammesso si tratti, come parrebbe, dello stesso Rinaldo d’Aquino che fu falconiere e poeta alla corte di Federico II), in visita o soggiornando per qualche tempo nel palazzo comitale aquinate, vi abbia recitato con enfasi i propri versi che, pervasi in assoluto di una soave bellezza, suscitarono ammirazione in Dante Alighieri.

sabato 20 maggio 2017

LA CARTIERA di Costantino Jadecola


L’interesse nei confronti della cosiddetta archeologia industriale, ovvero, più in particolare, della storia dell’industria cartaria - che insieme a quella laniera costituì un patrimonio di consistente entità specialmente per l’alta Terra di Lavoro - non può escludere dal novero di un tal genere di iniziative il ruolo avuto dalla cartiera Pelagalli di Aquino al cui ricordo, inevitabilmente, non può non abbinarsi un omaggio ad un affluente del Liri, la Forma di Aquino, forse l’unico affluente, oltre al Fibreno, cui venne affidato il compito, non di poco conto, di fornire energia ad una iniziativa industriale.
Alimentato dalle sorgenti che si aprono sulle più basse pendici di monte San Silvestro, propaggine del Cairo, in località Capo d’acqua nel territorio di Castrocielo, la Forma, dopo un percorso iniziale in parte disegnato dall’uomo, all’altezza della chiesa della Madonna della Libera, dunque in luogo immediatamente precedente la cartiera, effettuato un salto di quota di circa 13 metri va quindi ad occupare un proprio spazio nel letto degli antichi laghi di Aquinum, poi detti «Pantani», ed il motivo è facilmente intuibile, per raccordarsi, infine, con il fiume Liri.
L’adattamento artificiale del percorso iniziale della Forma viene generalmente collocato in epoca medievale anche se in prosieguo di tempo probabilmente venne abbandonato a sé stesso. Supporre, comunque, che tale adattamento fosse giustificato, oltre che da mere ragioni di bonifica, soprattutto per un più razionale utilizzo delle acque, è ipotesi da non scartare. A parte il fatto, degno di nota, che a monte ed a valle della zona dominata dalla chiesa della Madonna della Libera il percorso venne «inserito» nel sito dell’antica via Latina ormai in disuso, non è di poco conto il particolare determinato dalla presenza, proprio in quel tratto di via Latina riconvertito in letto della Forma, di un antico arco - già allora, come ancora oggi del resto, degnato di attenzione alcuna anche se ritenuto dagli studiosi una chicca di epoca augustea - che consentiva di poterne sfruttare la struttura per supportare i marchingegni occorrenti a regolarizzare il corso delle acque.
Ma per farne cosa di queste acque? Probabilmente un mulino, forse proprio quel mulino «a palmenti» che nel 1818 un Pelagalli, Pasquale, per l’esattezza, acquistò dal regio demanio.
La cartiera nasce dopo, nel 1843, e sarebbe stato proprio un figlio di Pasquale, Gaetano, a convertire il molino in cartiera, sfruttando ovviamente la forza idraulica prodotta dalla caduta delle acque della Forma.
Inutile precisare che le notizie su questa iniziativa industriale sono rare. Si ha però motivo di ritenere che l’avvio dell’attività non fu dei migliori a causa soprattutto di una gestione «familiare» attuata con ogni probabilità per lesinare sui costi e preferita, dunque, ad una gestione che avrebbe dovuto beneficiare dell’assistenza di personale specializzato. Pare, insomma, che esauriti i capitali di cui si disponeva, al fine di far fronte ai debiti fu inevitabile, per i Pelagalli, disfarsi di un centinaio di tomoli di terreno la cui vendita avrebbe fruttato sui 6.000 ducati, forse un centinaio di milioni di oggi.
Il risultato, però, non dovette essere in linea con le attese se si ritenne più conveniente affidarne la gestione a terzi. Ma si andò di male in peggio: capitò, infatti, sulla strada dei Pelagalli un certo Alviggi, forse Bonaventura, di Amalfi - che per il fitto avrebbe corrisposto sui 400 ducati l’anno - il quale, a transazione di una lite giudiziaria da lui stesso promossa, avrebbe infine preteso un consistente buonuscita.
Quanto alla produzione, la cartiera Pelagalli realizzava principalmente, se non esclusivamente, carta paglia, ovvero un tipo di carta ottenuta mediante la macerazione della paglia nella calce «viva» ed utilizzata ancora per qualche decennio dopo la seconda guerra mondiale soprattutto per avvolgere gli alimenti; talvolta, però, si produceva anche carta cosiddetta «bigia» e ricavata da un impasto di stracci e carta da macero.
Le vicende della cartiera seguirono quindi un andamento altalenante comunque proiettato verso un seppur modesto progresso: da una Statistica dell’Industria della Carta nell’Italia Meridionale si ha notizia che nel dicembre del 1860, con l’utilizzo di una sola macchina, l’unica, peraltro, di cui era dotata, e di «una turbina idraulica a cinque cilindri» (1882), essa produceva ogni giorno una decina di quintali di carta; da altra fonte apprendiamo, invece, che nel 1876 arrivava a dar lavoro addirittura a 90 operai. Considerato che la popolazione di Aquino si aggirava a quei tempi sulle duemila unità, essa costituiva dunque una buona risorsa per l’economia locale occupando, in dettaglio, 30 «maschi»” (pari al 33,33 per cento del totale), 20 «femmine» (22,22) e 40 «fanciulli» (44,45).
Nel giro di una ventina di anni, però, l’occupazione si affievolì notevolmente: i primi segnali di crisi arrivarono nel 1882 quando i posti di lavoro scesero a 75 per ridursi ulteriormente ad una quarantina alla fine del secolo. Ma c’è da precisare che il calo occupazionale registrato nel ventennio in questione fu un evento generalizzato, che interessò, cioè, tutto il settore cartario nazionale per via del progresso tecnologico e della conseguente maggior produzione di forza motrice.
Nel contempo cambia radicalmente anche la «fisionomia» dei lavoratori occupati: infatti, pur se permane identico a vent’anni prima, cioè a 30 unità, il numero dei «maschi», stavolta, però, esso costituisce nel complesso ben l’81,08 per cento del totale; al contrario, si contrae il numero delle «femmine», appena 5 (13,51), mentre è di notevole consistenza il calo della manodopera infantile, ridotta a due sole unità (5,41), di sicuro in seguito all’approvazione della legge che regolamentava il lavoro minorile (n. 3657, 11 febbraio 1886).
Quanto agli operai della cartiera Pelagalli, in particolare le «femmine», è il caso di citare una testimonianza collegata alla riscoperta, se non addirittura alla scoperta, della vicina chiesa della Madonna della Libera per via della presenza, in quella zona, di «un lastrone di marmo bianco» al cui centro, «con colore alquanto nerastro si vedeva effigiata una mano distesa». Ciò «avea fatto invalere negli animi degli Aquinati e specialmente nella classe contadinesca che in quel sito» fosse apparsa la Madonna della Libera: «una devozione per siffatto creduto prodigio animava tutti gli indigeni del paese a tributare il loro omaggio, ed in special modo tutte le artigianelle della vicina cartiera prima e dopo il loro travaglio quivi genuflesse con armoniose voci intuonavano l’inno a Maria» (Nota anonima manoscritta in G. Botta, Romanzetti storici contenenti fatti contemporanei dal 1860 in poi. Napoli, 1875).
Alla fine del XIX secolo la cartiera Pelagalli, che all’epoca contava su una forza idraulica di 40 cavalli, non doveva costituire l’unica attività «industriale» svolta in Aquino se dalla stessa fonte apprendiamo della presenza di una decina di telai per la «tessitura di stoffe liscie operate in lino e canape» che assicuravano una durata media di lavoro annuo di 120 giorni (Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Caserta nel 1889. Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. Direzione generale della statistica. Roma, 1889).
Tra il 1909 ed il 1910, ad iniziativa di un altro Gaetano Pelagalli, nipote dell’omonimo fondatore della cartiera, nella parte più elevata del terreno a disposizione, che era anche quella più prossima all’arco onorario, si costruì un’altra cartiera, ma di più modeste dimensioni, utilizzata essenzialmente per la produzione di un nuovo tipo di carta paglia, detta «toscana», caratterizzata, in particolare, da uno spessore più sottile rispetto a quella prodotta nella «vecchia» cartiera: poiché usciva ancora bagnata dalla macchina, necessitava di essere asciugata servendosi di appositi stenditoi ed utilizzando pesanti magli; da altra fonte del tempo, e con evidente riferimento alla cartiera Pelagalli, si ha notizia che in Aquino «è fiorente l’industria della carta da imballaggio» (Francesco Sarappa, Terra di Lavoro. Notizie geografiche, storiche, sociologiche della Provincia di Caserta. Napoli, 1917). E tuttavia da precisare che l’attività della cartiera di Aquino venne gestita a cavallo del secolo e forse per una quarantina d’anni (1880-1922?) da Riccardo Procaccianti, un imprenditore di Guarcino dove la sua famiglia possedeva un’altra cartiera ed un’altra ancora la possedeva a Prata Sannita, in provincia di Caserta.
L’attività della cartiera di Aquino non dovette andare molto al di là del 1922, anno della morte del Procaccianti tanto che non è da escludersi che a seguito di ciò alcuni operai aquinati si spostarono nella cartiera di Prata Sannita, dove tuttora ci sarebbe traccia di essi o, comunque, dei loro discendenti. Sta di fatto che nel 1926 quello che era «un antico stabilimento industriale per la produzione della carta», come si legge in un documento attinente la cessione del complesso alla famiglia Cerrone nei primi anni del secondo dopoguerra, «fu adibito parte ad uso rurale e parte a centrale elettrica per la produzione di energia», centrale già attiva presso il mulino San Costanzo sin dal primo decennio del Novecento sempre per iniziativa della famiglia Pelagalli. Ma a causa degli eventi bellici dell’ultimo confitto mondiale anche il macchinario che costituiva la centrale elettrica andò distrutto insieme a buona parte dei restanti fabbricati cosicché «del vecchio stabilimento denominato ‘Cartiera’ rimanevano pochi ruderi di fabbricati e i diritti dalla derivazione delle acque».

 

giovedì 18 maggio 2017

LE ZAMPOGNE di Vincenzo Pelagalli

                                          (Lo zampognaro: dipinto a olio di Paolo Secondini)
 
Nessuno strumento, nessun suono, nessun altro personaggio riesce a darci il senso del Natale meglio delle zampogne e degli zampognari.
Essi, da secoli, sono assurti a simbolo del gioioso periodo natalizio perché il loro suono, la loro nenia, più di ogni altra cosa, sa aprirci il cuore alla bontà.
Sembra strano, ma, almeno per la prima volta, le udiamo di notte, mentre noi dormiamo, e ci sembra che quel suono venga da molto lontano, quasi da un altro mondo; ed è proprio così, perché ci richiamano dal mondo inconscio del sonno.
In principio, potremmo trovare quel suono un po’ fastidioso, perché disturba, non poco, il nostro sonno, ma subito dopo scompare ogni fastidio, ogni risentimento e ci si abbandona a quel primo segno del Natale che si avvicina.
Torna allora alla mente L’udii tra il sonno le ciaramelle, che i maestri ci insegnarono sui banche delle elementari e quel verso, unito a quel suono, diventa l’abbrivo che ci riporta indietro nel tempo, a quando eravamo bambini: ci ricollega a quel tesoro di volti, di voci e di momenti che non ci sono più, che appartengono al nostro essere stati e che la zampogna, ascoltata nella notte, ha momentaneamente riportati alla luce del nostro presente; quel suono ci ha riportato alla nostra infanzia, triste o lieta, quale che essa sia stata, ma sempre tanto bella nel ricordo, e ci fa ritrovare il cuore, il candore, l’innocenza di allora.
Tra i fatti e gli episodi che quel suono ha richiamato alla mente ci sono, forse, i litigi con i nostri fratelli per accaparrarsi il privilegio di accendere e reggere il cero, mentre le zampogne suonavano la novena, e cento altre cosucce, di cui allora si piangeva o si andava fieri, ma di cui oggi si ride.
Io ricordo mio nonno, dai folti baffi grigi, burbero e brontolone, ma in fondo in fondo buon cristiano, andare in bestia perché si era accorto che il pifferaio, non conoscendo bene le parole della sua canzone, le biascicava a bassa voce: e gli diceva che non era quello il modo di agire, che era mancanza di devozione bella e buona, che con le cose sacre non si doveva scherzare e cento altre cose per un buon quarto d’ora; ma poi offriva allo spaventato pifferaio e al suo compagno una buona tazza di caffè, spegneva il cero, acceso per devozione, si calcava in testa il suo cappello stinto e sporco di calce, si avvolgeva nella mantellina e via al lavoro.
Con altri nomi, con altri atteggiamenti, con altre parole, questo è avvenuto un po’ per tutti, perché tutti abbiamo avuto il nonno forse un po’ burbero e brontolone, ma in fondo in fondo buon cristiano.

lunedì 15 maggio 2017

IL TUTTOFARE DELLE VALLI di Tommaso Di Brango


Nella contrada Valli lo chiamavano per i lavori più diversi e questo gli aveva permesso di ottenere una buona fama anche tra Aquino e Pontecorvo. Peppino senza lavorare non ci sapeva stare e chi lo conosceva bene diceva che, più che dall’amore per i soldi – che pure guadagnava abbastanza –, pareva essere mosso da una frenesia, una curiosa febbre che lo faceva sentir male se stava con le mani in mano. Faceva di tutto: dal muratore al contadino al commerciante. Sapeva pure suonare la fisarmonica per le serenate.  
Così accadde che questo volenteroso figlio di contadini, per lavorare tutto il giorno tutti i giorni, fosse arrivato alla bella età di ventisei anni senza sposarsi e senza nemmeno pensare di poterlo fare. Per la verità non mancavano le ragazze che spasimavano per lui, perché era un bel giovanotto e poi, con tutto il lavoro che si trovava, era pure un ottimo partito: era proprio lui che di certe cose sembrava non voler nemmeno parlare. Una sera, però, accadde un fatto destinato a cambiare la vita di Peppino.
Si trovava, insieme a due cantori e un mandolinista, a Pontecorvo per una serenata sotto casa di Luisetta Michelozzi: li aveva chiamati Errico Bruni, che Peppino aveva conosciuto facendo il mercato del lunedì vicino al fiume Liri. D’un tratto, però, mentre allargava e restringeva il mantice, Peppino, coi suoi occhi sempre stretti, vide un’ombra muoversi alle spalle di Luisetta, che si era affacciata sul balcone di casa. La cosa lo turbò abbastanza, tanto che smise di suonare e fece il capo in avanti come per vedere meglio e, mentre cantori e mandolinista si accorgevano dell’accaduto, notò che il riflesso della luce della lampada a olio si stampava sull’acciaio della canna di un fucile.
«Via!», gridò terrorizzato Peppino, ma non riuscì nemmeno a pronunciare il suono di questa parola che la sua voce venne sovrastata dal colpo secco sparato dall’arma e la terra in cui si conficcò il proiettile si sollevò come una minaccia. Il gruppo riuscì a mettersi in fuga mentre la mano che aveva fatto partire quel colpo armava nuovamente il fucile e sparava ancora, stavolta colpendo Peppino alla coscia destra e lasciandolo cadere al suolo tra grida e lancinanti dolori. L’obiettivo di quelle fucilate, ovviamente, non era lui ma Errico, che senza dir niente a nessuno aveva deciso di forzare la mano e fare la serenata pur sapendo che il padre di Luisetta non avrebbe mai acconsentito al matrimonio: ma spesso, nella concitazione, si spara nel mucchio e quel che si piglia si piglia.
Alla fine non ci furono morti: i due cantori presero Peppino a spalla, lo trascinarono via e insieme al mandolinista lo riportarono dai genitori alle Valli. Lì il proiettile venne estratto e la gamba fasciata ma quel giovanottone dai capelli rossicci dovette andare incontro a una punizione forse anche peggiore della fucilata, e cioè star fermo a letto per un mese in attesa di rimettersi. Come avrebbe fatto passare i giorni? Guardando il soffitto? Preso da questi pensieri Peppino giurò a se stesso che, appena tornato in piedi, avrebbe fatto la festa a Errico.
Immediatamente i vicini iniziarono a far visita al malato e, dopo un paio di giorni, vennero pure i Panzetti, vecchi amici di famiglia con Giovannina, una bella figliola ancora da maritare, al seguito. Si trattò di un incontro gradevole tra brave persone di lunga frequentazione, Peppino si sentì trattato amorevolmente da Teresina Panzetti che, in qualche modo, lo guardava come se fosse un po’ figlio suo. Ma, al termine di quel bel pomeriggio, accadde l’imprevisto, perché Giovannina disse che per nessun motivo al mondo sarebbe uscita da casa di Peppino. Voleva sposarlo e sarebbe stata disposta a far parlare tutta la contrada Valli se necessario.
La cosa, in effetti, gettò nell’imbarazzo le due famiglie. Da che era piccola Giovannina era innamorata di Peppino e questo si sapeva: ma un gesto del genere avrebbe messo i Panzetti sulla bocca di tutti i vallesi e, forse, la voce sarebbe arrivata addirittura ad Aquino e Pontecorvo. Sarebbe stato uno scandalo come non se ne sentivano da anni, forse da secoli in quelle terre.
Mentre i genitori di Peppino guardavano esterrefatti il pallore dei coniugi Panzetti, i quali a loro volta parevano scusarsi con gli occhi di fronte a quei vecchi amici, accadde però un altro imprevisto. Dal suo letto, infatti, il giovane tuttofare delle Valli fece come per mettersi seduto e disse che accettava volentieri di fidanzarsi con Giovannina e, dopo aver fatto i dovuti preparativi, di prenderla in sposa. La conosceva da una vita, come da una vita conosceva i suoi genitori, e sapeva benissimo che una ragazza e una famiglia migliore di quella non avrebbe mai potuto trovarla nemmeno se fosse arrivato fino a Frosinone. E poi, dopo aver preso in corpo una fucilata, aveva capito che i fiori, nella vita, vanno colti quando ci sono, perché un attimo dopo potrebbero non esserci più.
Naturalmente le due famiglie non accettarono subito di buon grado la cosa. Per mandar giù affari del genere ci vuole tempo e pazienza. L’immediato assenso di Peppino, però, avrebbe permesso a Giovannina di non piazzarsi in pianta stabile in casa sua e di evitare, con ciò, lo scandalo. Quanto alle sostanze, poi, le due famiglie erano più o meno pari, e quindi non c’era problema. Così, dopo qualche tempo, Peppino e Giovannina si sposarono e da quel matrimonio nacquero ben undici figli.  

sabato 13 maggio 2017

VIA DELLA LIBERTÀ di Paolo Secondini

Agli inizi degli anni Sessanta del XX secolo, via della Libertà, per noi ragazzi, era il luogo tranquillo di giochi appassionanti. Vi transitava un numero esiguo di automobili, per lo più Seicento, qualche Giardinetta, Millecento, Cinquecento “Topolino”, e – ricordo – mai nessuna vi era parcheggiata (oggi la situazione è parecchio diversa). In quella via ci sentivamo davvero liberi: liberi dal pericolo e dall’ingombro delle auto; liberi di esprimere appieno noi stessi giocando a pallone, a guerra francese, a chiapperello, a nascondino, a guardie e ladri, e soprattutto scorrazzando, senza mai stancarci, sugli amati monopattini.
Erano, questi, i nostri rudimentali mezzi di locomozione (che Antonio il falegname, bontà sua, ci costruiva gratuitamente, nei momenti in cui non era oberato di lavoro), fatti con materiale di scarto: due piccole tavole grezze poste ad angolo retto e poggianti su cuscinetti a sfera.
Con un piede sul monopattino e l’altro che, scalciando indietro, spingeva sulla strada, facevamo girare i cuscinetti i quali, scorrendo sull’asfalto, producevano un rumore stridente, continuo, che alla lunga diventava per molti insopportabile.
Spesso accadeva, specialmente nei caldi meriggi d’estate, che quando un adulto si abbandonava al sonno – la classica pennichella dopo pranzo , veniva destato, con grande fastidio, dalle nostre corse su quei trabiccoli infernali.
Non mancava chi, affacciandosi alla finestra o sulla porta di casa, inveisse contro di noi a gran voce, e accusasse i nostri genitori di non averci educati a dovere, senza affibbiarci, all’occorrenza, una buona dose di scapaccioni o di cinghiate.
Ma la nostra non era cattiveria né, tanto meno, mancanza di rispetto nei confronti di nessuno. Il nostro comportamento, solo in apparenza da veri monelli o scapestrati, era dovuto, più che altro, a una gioia istintiva, unica, immensa, a una grande vivacità che né le minacce né le lusinghe avrebbero mai imbrigliato…
Via della Libertà!
Quanto tempo è passato da allora! Quanti ricordi di momenti felici, spensierati, come anche di amici oggi scomparsi! Quanta nostalgia di quella via assai cara, in modo particolare, a noi ragazzi; quella via che, perlomeno ai nostri occhi, pare non sia, attualmente, più la stessa!

 

 

mercoledì 10 maggio 2017

FAVE di Peppe Murro

Le fave cotte non mi erano mai piaciute, ma il pane rosso sì….
Né pioggia né vento.
Era una di quelle mattine che novembre ti regala quando è infuriato: una nebbia fitta e umida che pareva ci potessi navigare dentro ad ogni passo; te la sentivi colare sulle tempie come un muro d’acqua biancastro in cui la strada si immergeva e il tuo respiro gettava fuori in sospensione aliti di vapore che si dissolvevano lentamente.
Era anche, però, il giorno delle fave e quella mattina avevamo deciso di alzarci presto per essere tra i primi, però quando arrivammo lì già c’era una grossa fila di persone; cercavamo di infilarci, ma i grandi ci passavano davanti senza troppi complimenti.
Alla fine, come dio volle, venne il nostro turno: Angelo con quella specie di tazza da latte che aveva portato, teneva le mani strette agguantando con occhi attenti la sua porzione di fave calde, il viso pacioso e soddisfatto; poi toccò a Tonino che aveva portato una gavetta tanto grande che sembrava un secchio, ed alla fine io, con la mia brava gavetta d’alluminio ammaccata.
Ci mettemmo in un angolo scaldandoci le mani al calore delle gavette; loro due cominciarono a mangiare con allegra voracità, io cincischiavo girando il cucchiaio in quella che mi appariva una brodaglia melmosa; provai pure a dare un morso al tozzo di pane rosso… buono e fresco, caldo e pastoso che ti riempiva la bocca promettendo di fare altrettanto con lo stomaco.
A testa bassa, quasi col naso incollato alla gavetta, Tonino mangiava famelico le fave; io lo guardavo e mi chiedevo che facevano a piacergli le fave cotte.
Ad un certo punto si girò verso di me: “Ma non mangi?”
“No, veramente non è che mi piacciono tanto le fave cotte”.
Uno sguardo furbo e disse: “Allora le mangio io”.
Prese la mia gavetta rovesciando il contenuto nella sua, con un roteare vorticoso del cucchiaio.
Poi mi guardò di nuovo e disse: “Eh, ma le fave senza pane non sono buone” e allungò, rapace, la mano.
Restai lì seduto mezzo imbambolato, a guardare la gente che prendeva le fave, e Angelo con le mani incollate alla tazza, e Tonino, che mangiava contento il tozzetto di pane che non avevo salvato.

lunedì 8 maggio 2017

IL SEMINARIO di Stefano Iadecola

È quello che, tra i monumenti della città, suscita meno interesse al primo sguardo. Ma la struttura si erge ancor oggi imperiosa ed austera, sebbene rechi in volto i segni di un’esistenza remota. Segni visibili che, tuttavia, reclamano rispetto, come le rughe e i capelli d’argento degli uomini cosiddetti “di una certa età”. Segni ancor più evidenti allorché frutto del confronto, che all’occhio non può certo sfuggire, con lo stabile attiguo, di più recente edificazione. Il contrasto è palese, come un manifesto visibile di quella dicotomia marcata che fraziona le epoche storiche di una città. Una metafora architettonica perfetta tra ciò che è e ciò che è stato. Silenzioso e anacronistico spettatore del quotidiano incedere del tempo, il Seminario si cela timidamente dietro l’edificio adiacente che, nuovo di intonaco, fa bella mostra di sé fino alla centrale piazza, non lasciando intravedere nulla.
È sufficiente voltare l’angolo, immettersi nella vecchia strada che costeggia il vallone e proseguire per pochi metri, per osservare l’intonaco del nuovo edificio spegnersi in una linea verticale improvvisa da cui scaturisce la nuda pietra antica del Seminario di Aquino. I segni del tempo non lasciano spazio a dubbi: è un pezzo della nostra storia.
Dalle insenature nella pietra, talvolta profonde e spesse come intercapedini, spuntano i residenti odierni: famiglie di piccioni, piccoli segni di vita. Il Seminario vive. Vive ogni giorno un destino ingrato, forse inevitabile, alla stregua di tutti gli edifici comunemente definiti, spesso solo per comodità, fatiscenti. Un destino chiamato abbandono. Eppure, sebbene inevitabilmente inagibile e pericolante, esso è vivo e solido nel ricordo di tanti aquinati e di moltissimi sacerdoti che in quel luogo, tanti anni orsono, furono iniziati al culto cattolico per esercitare il proprio ministero in ogni angolo del mondo. Vive soprattutto nel ricordo forte di Don Battista Colafrancesco.
Molti ricordano quell’istituto rigoroso trasformarsi occasionalmente in una sala di proiezione cinematografica. Un luogo di svago saltuario per coloro che gradivano assistere alla proiezione di un film. Gli uomini di oggi si rivedono fanciulli di un tempo che fu, mentre, oltre mezzo secolo fa, se ne stavano arrampicati alle grandi finestre per spiare lo sparo di un cowboy o la freccia di un indiano, cercando nel contempo di raccontare tutto agli amici rimasti in coda a reclamare il proprio turno per affacciarsi. Scene di finzione, rubate da uno spiraglio, che da sole sarebbero bastate a nutrire i loro sogni, le emozioni e le fantasie per lungo tempo.

venerdì 5 maggio 2017

ZINGARI di Costantino Jadecola

(Foto: La famiglia di Crescenzo Spada con la moglie Pasqualina Tomasso, che ha in braccio la piccola Adelina e, quindi, a seguire, gli altri loro figli: Alessandro, Giuseppe, Teresa e Maria.)

 
La più lontana presenza di zingari stanziali in Aquino viene fatta risalire ai primi decenni del XX secolo come confermano varie testimonianze - tra le altre si ricordano quelle della sig.ra Francesca Di Folco e del compianto sig. Antonio Gerardi - che, però, anche se rese da persone ormai avanti negli anni, inevitabilmente non vanno al di là di una certa epoca: di conseguenza, non possono precludersi, ovvero escludersi, stanziamenti preesistenti: ad esempio, Tommaso Di Nallo (Aquino nostra. 1990, anche per le successive citazioni) scrive, ma senza circoscriverne l’epoca, che «da noi ci son stati in pianta stabile per forse cent’anni» e poi aggiunge che «alcuni di essi furono soldati nella guerra 15/18».
Si ha, invece, un ricordo abbastanza nitido dei due capostipiti, diciamo così, cioè Alessandro De Rosa ed Antonio Spada che abitavano ad un centinaio di metri di distanza l’uno dall’altro in quella zona di Aquino ai margini del burrone delle Pentime - perciò detta ‘n’pónta alle Péntema’ - che fu, con l’altra oggi tagliata da via Giovenale, quella dove in un’epoca imprecisata ma presumibilmente dalla fine del XVII secolo gli aquinati cominciarono ad andare ad abitare spostandosi, molto gradualmente, dal borgo medievale sviluppatosi nel tempo intorno al castello dei conti di Aquino, dove era nato San Tommaso.
Negli anni Trenta del secolo scorso Alessandro, familiarmente detto ‘Zì Santuccio’, ed Antonio potevano avere sui sessant’anni: l’uno abitava in prossimità della zona lambita dall’autostrada, esattamente dove via Pescennio Negro è collegata a via Scacchi da un piccola strada in discesa e, proprio per ciò detta, a quei tempi, ‘la discesa’; Antonio, invece, in via Cavour in locali adiacenti l’edificio che ospitava la caserma dei Carabinieri: si trattava, precisa Di Nallo, «di vani terranei con la sola porta d’ingresso e la terra per pavimento».
Si ignora se di questi vani Antonio ed Alessandro ne fossero i proprietari. Si dice, però, che almeno quest’ultimo, al di là di quelli abitati, ne disponesse di altri nei quali trovavano ospitalità gli zingari probabilmente dello stesso ceppo familiare nelle loro occasionali venute ad Aquino. Gli altri, invece, quelli, cioè, che non erano in rapporti di parentela o di amicizia, erano soliti trovare riparo nel borgo medievale, in particolare in quella stretta galleria al di sotto del palazzo dei Capozzella che da via San Costanzo consentiva l’accesso ai cosiddetti ‘casarili’ - un piccola area del borgo a fortissima intensità abitativa - oppure, al termine della stessa via, alla fine della discesa, in quel passaggio coperto attraverso il quale forse un tempo si accedeva all’esterno del castello, poi ai Pantani ed oggi al cosiddetto Parco del Vallone. Non si esclude, però, che anche il porticato della chiesa della Madonna della Libera fosse tra i luoghi preferiti dagli zingari per i loro soggiorni aquinati.
Quanto ad Alessandro ed Antonio v’è da aggiungere che essi avevano sposato due sorelle - uno Rosina, l’altro Antonia - le quali, pare, fossero figlie di una coppia ‘mista’, ovvero papà zingaro e mamma no, la quale, tuttavia, ben prestò aveva acquisito usi e costumi rom.
Alessandro e Rosina ebbero un solo figlio, Rosino, soprannominato ‘Cesidio’; Antonio ed Antonia, familiarmente ’Ntoniella, invece, addirittura otto: Antonio, Crescenzo, Maria Grazia, Benedetto, Celeste, Domenico, Alizio e Michelina. Se alcuni di essi continuarono a vivere ad Aquino altri andarono via facendovi ritorno, però, di tanto in tanto, chissà?, anche per nostalgia.
«Ora è qualche domenica», racconta Di Nallo, «ne fu visto uno percorrere le nostre vie e piazze; un bel tipo di zingaro alto, scuro, baffuto, col tondo cappellaccio e lo sgargiante fazzolettone al collo. Riguardandosi intorno, andava e sostava, andava e sostava, come a chiedersi: ma questo è ancora Aquino?... E fu male che qualcuno, riconosciuto in quel sessantenne il compagno d’infanzia Alizio, non lo andò a incontrare, a salutare, a ricordargli le arrabbiate lizze a spacca, nella piazzetta della vecchia Cattedrale, con le trottole a quadrella e le inesorabili cialenche a fine partita».
Ma probabilmente i rapporti andarono anche al di là di questi giochi infantili se è ancora Di Nallo a raccontare che «una volta uno zingaro s’imbatté in un signore della piazza che recava a battesimo, in braccio alla balia, il suo neonato, offerto al primo incontro sulla via della Madonna.
«Figurarsi la gioia dello zingaro, il quale diventava così di diritto il padrino del bimbo!
«Poi ci fu al palazzo la gran festa per il battesimo e, tra gli scelti invitati, tutta la famiglia zingaresca, col nuovo Compare a capotavola, il quale - c’è da immaginarlo! - Compare qua... Compare là... - Né i buoni rapporti cessarono, poi. E il meglio si fu che da quella comparanza lo zingaro si affrancò del tutto dalla sua condizione, avviando una normale condotta di vita e inserendosi con pieno merito nella comune società».
E, come lui, altri, tant’è che vissero, ad esempio, con gli aquinati e come gli aquinati, le drammatiche vicende cui il territorio fu sottoposto durante il secondo conflitto mondiale. Di esse vi è la testimonianza in una eccezionale immagine, scattata, si ritiene, da un fotografo di guerra, che ha fatto il giro del mondo: una famiglia di Aquino sulla via dell’esodo. Guarda caso, la famiglia di Crescenzo Spada, figlio di Antonio, con la moglie Pasqualina Tomasso e Adelina, Alessandro, Giuseppe, Teresa e Maria, i loro figli. La foto venne scattata dalle parti di Cerreto di Vallerotonda, luogo d’origine di Pasqualina, l’8 febbraio del 1944.

mercoledì 3 maggio 2017

IL CONTE PAGLIAI di Tommaso Di Bramgo


La contessa Rosa Mazzei Serponi Franceschi decise di abbandonare Caserta per trasferirsi insieme a Fiorenza, la sua unica figlia, nella contrada Valli, ad Aquino, nel 1848. Suo marito Raniero, ufficiale dell’esercito borbonico, era morto durante i moti scoppiati a Palermo il 12 gennaio e la cosa le aveva procurato un’impressione tanto grande da spingerla a far vita di campagna, al riparo dai marosi della storia. La contrada Valli era infatti un grazioso fazzoletto di terra disteso poco fuori dal centro abitato di Aquino, a metà strada tra Napoli e Roma: luogo ideale per vivere lontani dagli impeti rivoluzionari di qualche liberale dalla testa fumante. Così la contessa comprò quasi tutto il territorio della contrada, vi fece costruire una villa e due case coloniche e lì visse in sostanziale tranquillità per il resto dei suoi giorni. 
Un giorno, però, nelle Valli si stabilirono anche i Pagliai, una famiglia di commercianti e contadini venuti da Salerno per coltivare terre e vendere frutta e verdura tra Aquino e Pontecorvo. Dalle loro parti, dicevano, la concorrenza dei cilentani si faceva ogni giorno più difficile da reggere e a fine mese i soldi in cassa erano sempre meno. La cosa, ovviamente, non turbò la contessa, che anzi ebbe modo di conoscere i nuovi arrivati e di stimarli persone dabbene per quanto, forse, un po’ ruvide nei modi. Col passare del tempo, però, questi nuovi arrivati si sarebbero dimostrati in grado di cambiare parecchie cose in quella terra. 
Accadde infatti che un giorno Rocco Pagliai, il maggiore dei tredici figli di quella famiglia, si presentasse a casa della contessa per chiedere la mano di Fiorenza. Sulle prime la nobildonna riuscì a stento a trattenere un sorriso – come avrebbe mai potuto un ragazzo certo ammodo ma, in ogni caso, non del suo rango sposare la sua bambina? –, ma l’insistenza del giovane la costrinse a cercare una via diplomatica per risolvere l’impiccio.
«Vi ringrazio – disse – caro Rocco, della cortesia con cui vi appropinquate al cospetto mio e di mia figlia: debbo dire che è merce rara, oggigiorno. Siete un bravo ragazzo e un bel giovane, figlio di brava gente, ma non posso concedervi con troppa facilità la mano di Fiorenza».
Rocco, che dal canto suo aveva capito solo di essere un bravo ragazzo e di non poter sposare la giovane, replicò con un garbo che non riusciva a mascherare un po’ di agitazione: «Mi perdonerà Madama, non vi voglio mancare di rispetto, però se sono un bravo giovane che mi manca per sposare vostra figlia? Ci vedete meglio un manigoldo vicino a lei?»
La contessa Mazzei si aspettava questa reazione e rispose: «State tranquillo Rocco. Non ho detto che non voglio che voi sposiate mia figlia. Al contrario sarei molto felice di avere per genero un bravo ragazzo come voi. Prima di darvi il mio assenso, però, devo verificare lo stato delle vostre sostanze», e, dopo una breve pausa, aggiunse: «Di voi ho grande stima, ma Fiorenza è l’unica figlia che ho. Devo essere sicura che suo marito la prenda perché ama lei e non perché spera di appropriarsi delle terre che erediterà».
Rocco Pagliai ascoltò le parole della contessa con la fronte leggermente aggrottata, cercando con una certa fatica di non farsi sfuggire il senso di nessuna delle parole da lei pronunciate, e per essere sicuro di non dire sciocchezze chiese: «Quindi, Madama, mi state dicendo che volete sapere quanta roba abbiamo noi Pagliai?». «Sì», replicò secca e trionfante la Mazzei, sicura com’era che mai e poi mai quei commercianti avrebbero potuto competere con lei in materia di proprietà e possedimenti.
«Ah, e tutto questo è il problema?», replicò Rocco distendendo i lineamenti del viso e alzando leggermente il braccio destro con il palmo della mano rivolto verso l’alto: «E se è tutto qui il problema non c’è! Noi Pagliai di roba ne abbiamo tanta, ma talmente tanta che ci possiamo riempire le Valli. Solo, ecco, per vederla dovrà venire a Salerno con noi, perché ci siamo trasferiti da poco e il grosso è rimasto lì. La possiamo invitare a pranzo per il mese prossimo!».
La contessa, sorpresa, non poté far altro che accettare la proposta del ragazzo e un mese dopo, guardando la cantina dei Pagliai a Salerno, rimase con la bocca aperta. Davanti agli occhi, infatti, ebbe un mare di botti piene zeppe di grano, tanto che pensò che forse, a conti fatti, quei commercianti finivano per essere addirittura più ricchi di lei. Quel che la nobildonna ignorava è che quei recipienti erano stati riempiti solo in parte di grano, mentre il grosso conteneva vecchie erbacce, foglie e piccoli rami, e che i Pagliai avevano architettato tutto questo per imparentarsi con la nobiltà e mettere le mani sulle sostanze.  
Così la Mazzei diede il suo assenso al matrimonio di Rocco e Fiorenza, i due si sposarono e, poco dopo, l’inganno venne rivelato. Ciononostante i due sposi vissero felici per il resto dei loro giorni, perché oltre che alla nobiltà e alle sostanze Rocco teneva alla sua giovane sposa, dalla quale ebbe tre bei figli e grazie alla quale divenne il Conte Pagliai.

lunedì 1 maggio 2017

IL CANTO DEGLI AQUINATI di Vincenzo Pelagalli

Il nostro canto, il nostro Evviva Maria!, è, senza dubbio, uno dei più belli tra quelli che le varie Compagnie cantano andando a Canneto.
Non dico questo per amor del campanile, lo dico riferendo il giudizio di musicisti per cultura e professione.
Uno di loro, per alcuni anni, ha registrato, per meglio studiarli, tutti i canti ed ha stilato una specie di classifica, ponendo il nostro al primo posto insieme ad altri due, anche se, a suo dire, all’esecuzione attuale, mancano delle acciaccature, tanto in uso, in questo tipo di canto, all’epoca in cui fu composto (fine ‘800).
Nessuno, tra i responsabili della Parrocchia o della Compagnia, ha saputo dirmi chi sono stati gli autori, ma sia il testo che la melodia rivelano grande sensibilità artistica e grande competenza specifica da parte di ognuno di loro.
La strofa iniziale, che è come il prologo nei grandi poemi in cui il poeta invoca la musa ispiratrice, chiama a raccolta la parte più bella e più nobile dell’uomo: il cuore e la mente, gli affetti e i pensieri e lo invita a lodare Maria e chi la creò.
Il testo si snoda nelle sue trentanove strofe, di quattro versi ciascuna, sottolineando momenti della vita della Vergine e di Gesù.
Non voglio soffermarmi sull’analisi del testo ma non posso evitare di sottolineare come esso sia ricco di riferimenti teologici e dogmatici.
La melodia, che la trasmissione orale, di generazione in generazione, ha fatto giungere fino a noi, ha un andamento lento, come si addice al passo del pellegrino, ma solenne e maestoso.
Nella Nostra Compagnia, che in modo alquanto singolare, per tradizione, non sostiene il canto con strumenti musicali, la strofa è cantata da un piccolo gruppo di donne, definite soliste, tra cui mia madre; il ritornello, invece, è affidato alla possente massa corale di tutti i pellegrini ed è un vero e proprio urto che scuote l’anima fino alle radici e la mette a nudo.
(da: La mia Canneto)