Libri

 
BETOCCHI, IL VETTURALE DI COSENZA E I POETI CALABRESI di Carlo Cipparone

La cultura prodotta dalla provincia italiana si nutre da sempre di sentimenti contrastanti. Da un lato, infatti, gli intellettuali nati e vissuti nei piccoli centri non hanno quasi mai mancato di evidenziare la stretta correlazione tra condizione provinciale, ristrettezza d’orizzonte e refrattarietà all’innovazione culturale, esprimendo non incomprensibili moti di rifiuto. Dall’altro lato, però, è altrettanto agevole rilevare che in quegli stessi intellettuali la “provincialità” porta con sé anche un forte senso di appartenenza in virtù del quale la terra natia viene percepita non come un vicolo cieco da cui fuggire ma, piuttosto, come una sorgente essiccata da rivitalizzare.
A questa “legge” non sfuggono nemmeno le pagine di Betocchi, il vetturale di Cosenza e i poeti calabresi (Cosenza, Edizioni Orizzonti Meridionali, 2015) di Carlo Cipparrone. È vero, infatti, che questo breve ma denso volumetto si alimenta perlopiù di documenti relativi al rapporto tra il suo autore e Carlo Betocchi e, più in generale, tra quest’ultimo e i poeti calabresi del Novecento; ma è altrettanto vero che quel che da tali scritti emerge è soprattutto l’immagine di una Calabria pigra e culturalmente arretrata ma anche carica di energie e potenzialità che non riescono a trovare vie per esprimersi.
Penso, in proposito, soprattutto all’ultima sezione del libro, ovvero a quella con cui Cipparrone fornisce brevi, esaustivi e appassionati – ma mai oleografici – ritratti di poeti come Lorenzo Calogero, Nerio Nunziata, Ermelinda Oliva, Gilda Trisolini e Silvio Vetere. È rievocando queste figure, infatti, che emerge il profilo di una Calabria “europea”, che se da un lato riesce a liberarsi dall’angusta ipoteca del classicismo erudito – tara storica della cultura di provincia – dall’altro resta priva di significativi contatti col circuito dell’editoria nazionale, configurandosi dunque come intensa e sofferta espressione di un sentimento di estraneità che ha radici storico-culturali oltre che filosofiche ed esistenziali.
Il destino di questi poeti sembra del resto essere stato involontariamente profetizzato da Carlo Betocchi nel 1957 in un dialogo a mezzo stampa con Cipparrone e Nunziata riportato nella seconda sezione del libro. Mentre questi ultimi denunciavano l’arretratezza della cultura locale rilevando la fredda accoglienza riservata in città a una conferenza tenuta da Betocchi, infatti, il poeta de L’estate di San Martino gli faceva notare, con sensibilità quasi gramsciana, che proporre una cultura d’avanguardia in un contesto ricco di energie ma arretrato sul piano socio-economico significa inevitabilmente condannarsi alla sconfitta e all’emarginazione e che occorre, piuttosto, lavorare su un’innovazione in grado di innestarsi sulla cultura esistente.
Il libro di Cipparrone mostra, inoltre, che l’atteggiamento di Betocchi nei confronti dei poeti calabresi è sempre stato caratterizzato da una significativa – anche se non sempre affidabilissima – generosità. Da un lato c’è l’epistolario – riportato nella quarta sezione del libro – tra l’autore e il poeta di Realtà vince il sogno, da cui emergono soprattutto le differenze tra un giovane poeta calabrese desideroso di far valere i propri talenti e un affermato autore impegnato nell’editoria e nella RAI; dall’altro lato, però, c’è il breve saggio sui rapporti tra Betocchi e i calabresi Calogero, Oliva e Trisolini, da cui emerge il sincero impegno di talent scout profuso dal poeta fiorentino.  
A sintetizzare questa serie di diadi oppositive – arretratezza provinciale e cultura d’avanguardia, attivismo culturale ed estraneità al circuito della grande editoria, prossimità e distanza da Carlo Betocchi – ci sono poi i versi de Il vetturale di Cosenza e Betocchi (e la comune strada) presenti nella seconda sezione del libro. Il primo componimento venne realizzato da Betocchi durante il suo soggiorno a Cosenza, nel 1957, ed è una sorta di omaggio ai vizi e alle virtù di un Mezzogiorno in cui una dignitosa miseria convive spesso con una non altrettanto lodevole arte di arrangiarsi; il secondo è, invece, un componimento pubblicato, oltre che nel presente libro, anche sulla rivista «Capoverso» e nel volume Il poeta è un clandestino e pensato da Cipparrone come risposta ideale ai versi del poeta fiorentino. Una risposta che lascia trasparire un senso di profonda venerazione per Carlo Betocchi, che Cipparrone ha considerato e considera uno dei pochi grandi poeti del Novecento, ma anche la convinzione di avere in comune con lui quella «ostinazione del solitario andare» che, al netto di qualsiasi differenza socio-ambientale, qualifica il senso profondo del fare poesia. 
Tommaso Di Brango


V. Magrelli, Geologia di un padre,
Torino, Einaudi, 2013
Geologia di un padre (Torino, Einaudi, 2013) è un libro che vorrebbe sfuggire alle classificazioni di genere. In esso, infatti, la scrittura di Valerio Magrelli tende a inglobare tutto ciò che incontra - prosa narrativa, poesia, prosa saggistica, satira di costume ecc. - senza identificarsi con nulla, dando vita a un pastiche letterario il cui postmodernismo non strizza mai l'occhio al "pop". 
Tuttavia questa programmata "impurità" del libro viene almeno in parte smentita dal fatto che un ubi consistam forte, in queste pagine, c'è. Vero è, infatti, che in Geologia di un padre Magrelli dà valenza letteraria a un processo di elaborazione del lutto, ovvero mette a disposizione dei lettori una dinamica tutta interiore e privata. Non per nulla questo libro è costruito attraverso il riassemblaggio di fogli a cui l’autore ha affidato, nel corso degli anni, le sue riflessioni sulla malattia e morte del padre, e dunque la sua realizzazione comporta che il rapporto tra autore e pagina bianca diventi materia da offrire ai lettori. 
Insomma: malgrado cerchi con tutte le sue forze di essere altro Geologia di un padre può essere ricondotto al genere, abbastanza antico, della confessione. E lo è intensamente, per di più, tanto da disturbare talvolta il lettore, che a più riprese si troverà a chiedersi che motivo c'era di dare alle stampe un dramma così personale. 
Attorno al tema principale - il rapporto, necessariamente complesso, tra l'io narrante/autore e Giacinto, suo padre - ruotano, poi, altri motivi certo meno determinanti ma, comunque, degni di nota ai fini della comprensione del libro. Penso alla riflessione sulla sociologia della tumulazione con cui Geologia di un padre si apre - Magrelli, in questo, sta gli antipodi rispetto a Foscolo: per lui la pratica della sepoltura è indice del radicale conservatorismo delle nostre società - oppure al leggero snobismo che emerge da queste pagine quando l'autore parla della Ciociaria ("CiociaIrak"), da cui pure suo padre proveniva.
In ogni caso resta il fatto che Geologia di un padre, pur con qualche non piccolo difetto, è uno dei libri più intensi della nostra recente storia letteraria e che il tempo che si impiegherà a leggerlo non è speso invano.
T0mmaso Di Brango


QUOTA 734 – Una famiglia formidabile
di Temistocle Saponiero
Edizioni Delta-3

Temistocle Saponiero è nato a quella quota (734 metri sopra il livello del mare), sulla collina dove sorge Lacedonia, paese dell’Alta Irpinia.Chi è? Per saperlo, bisogna leggere il libro, che vede lui come protagonista e narratore, con la sua famiglia di origine, le cui radici affondano proprio in quel borgo sperduto, all’incrocio tra Campania, Puglia e Basilicata.Oggi, Lacedonia ha circa duemila abitanti. È un paese tranquillo, abbastanza benestante, accogliente per chi desidera respirare aria salubre e gustare cibi antichi e genuini. Un tempo era una popolosa contrada contadina, dove la gente stentava a vivere, dedicandosi a un’economia agricola di puro sostentamento. Il grano era (ed è tuttora) il prodotto che la terra elargisce in prevalenza. Lacedonia era pure luogo di mandamento, con scuole e un piccolo ospedale. Francesco De Sanctis (sì, il famoso critico e storico della letteratura, che era nato a Morra Irpina) vi fondò un Istituto Magistrale che divenne prestigioso e che esiste ancora oggi. Nel corso dei decenni del secolo scorso, questa scuola sfornò una folta schiera di maestri che poi andarono a prestare il loro servizio nelle più disparate zone d’Italia. A questo paese, e alla famiglia Saponiero, l’autore dedica dunque una lunga narrazione. Vi scorrono tanti fatti, si incontrano molte persone. Passarli in rassegna, qui, sarebbe fuori luogo. Il mio discorso risulterebbe noioso. Lascio, piuttosto, alla lettura del libro il piacere di conoscerli, perché di vero piacere si tratta.Temistocle, che oggi ha ottant’anni, racconta e presenta i suoi personaggi con vivacità espressiva. Si sofferma affettuosamente e con acume psicologico sui fratelli (dieci), sulla madre Antonietta e sul padre Vincenzo, figure che ricorda con particolare affetto e riconoscenza. Questi ultimi l’hanno educato con amore, affrontando una vita piena di difficoltà, anche economiche. Il paese era povero; la gente, fra gli anni ’30 e gli anni ’50, conduceva ancora una grama esistenza. Temistocle e i suoi fratelli furono allevati con quella frugalità che, pur essendo a suo tempo faticosa, oggi gli appare come un patrimonio di valore: l’esercizio al sacrificio, alla privazione, al disagio. Che non è poco.Verso i genitori, Temistocle porta un robusto sentimento di gratitudine. Pur essendo poveri, essi hanno sempre creduto nell’importanza dell’istruzione e della cultura. Il padre era un maestro elementare, grande lettore, uomo di studio continuo e appassionato. Fece diplomare tutti i suoi figli, tanto che la famiglia divenne d’esempio per la comunità lacedoniese. Il libro si legge con curiosità e diletto, grazie al linguaggio forbito e nello stesso tempo funzionale. L’autore racconta a braccio, senza un ordine apparente. Ma questo, secondo me, è un pregio. Il tono colloquiale, infatti, cattura subito il lettore e lo conduce attraverso un labirinto di fatti, di ambientazioni, di personaggi che escono dalla memoria di chi scrive e si imprimono con forza nella mente di chi se ne sta con il libro in mano. È una lettura davvero suggestiva, che raccomando a chi voglia penetrare l’ambiente e la mentalità di quell’angolo un po’ sperduto della nostra penisola, un luogo che però vanta un’antica dignità storica e valori culturali.Più interessante è la prima metà del libro, dove si parla dell’ambiente, degli usi e costumi della gente irpina a cui appartiene orgogliosamente l’autore. Qui il discorso assume le caratteristiche di tanta pregevole produzione meridionalista, di stampo verista. Poi, la trattazione si fa più personalizzata e riguarda l’uscita dal paese e l’inizio della carriera lavorativa. Quest’opera autobiografica, libera da qualsiasi esercitazione stilistica fine a se stessa, ha il pregio della sincerità. È la ricostruzione di un’esperienza reale, effettuata con ardore e grande sensibilità: un omaggio alla terra-madre e alla famiglia tradizionale.
Giuseppe Novellino


CALAVRICE
di Angelo Sirignano
Edizioni Ciesse

Con questo suo secondo romanzo, Angelo Sirignano ci ripropone le atmosfere, la gente e i paesaggi del territorio che sta tra Napoli e Avellino con i suoi famosi noccioleti.
Al centro c’è Luigi, un vecchio solo e sradicato, al quale si presenta una donna che gli racconta la storia di Antonio e Carla.  Questi ultimi si sono incontrati, si sono sposati e hanno messo insieme una famigliola che poi ha avuto uno strano destino. Hanno fatto fatica ad avere figli. Solo dopo una lunga attesa, sono riusciti a generare la loro creatura. Vivono tra i campi e il paesello immerso nel verde di una terra fertile ma in parte selvaggia e insidiosa.
La vicenda di Antonio e Carla viene accompagnata da un’altra, che vede come protagonista l’omonimo nipote di Luigi. È un’accidentata storia d’amore. Si tratta dell’incontro, prima timido e poi contrastato, tra Luigi e la bella Barbara, vedova presunta di un soldato disperso in guerra. Le fatiche del giovane, nel conquistare l’avvenente signora, non sono coronate dal successo. I genitori di lui si oppongono, la gente mormora. Così Luigi si sente addirittura spinto al suicidio. Ma come va a finire esattamente, lo lasciamo scoprire al lettore.
Si tratta dunque di una narrazione a montaggio alternato, per usare un termine cinematografico. Due racconti che non si intrecciano nel vero senso della parola, ma che fanno riferimento a un unico ascoltatore, il vecchio Luigi, e hanno in comune i paesaggi, le atmosfere contadine del secondo Novecento in una regione del nostro Meridione in conflitto tra modernità e arcaicità. Belle sono le descrizioni della natura, della vita nei campi e della fatica che accompagnava, ancora nel secolo scorso, la vita di tanti contadini. Ci sono poi gli usi e i costumi ritratti in modo competente da un autore autoctono, che però mai si abbandona alla mera informazione tipo Touring, né incorre nei pericoli dell’infodump.
A tinte marcate viene ritratta la personalità dei vari personaggi. Lo scrittore utilizza una prosa funzionale e fluida nel tessere la trama e nel descrivere una natura che offre, insieme ai suoi frutti, anche pericoli e perfino la morte. Ed è proprio tra morte, vita e amore che si gioca l’esistenza dei personaggi del romanzo.
Termino con un passo dell’opera, che aiuta a coglierne l’intima natura e che funzionalmente spiega il significato del titolo: “Ma come, utile per la vipera e utile per l’uomo? Per il male e per il bene? Come è possibile? Chissà che direbbe Carla. E c’è pure da domandarselo? Direbbe che la calavrice è un albero. Punto e basta: al di là del bene e del male”.
La calavrice, cioè la pianta del biancospino, diventa simbolo dell’aspra e nello stesso tempo sacra lotta per l’esistenza.
    
Giuseppe Novellino