venerdì 12 settembre 2025

CINEMA GIOVENALE di Peppe Murro

 


Dovevi andare dove la piazza si incuneava serpeggiando nella strada delle Pentime, fra il macello di Vincenzo Ntaccateglie e una maceria, usata come mattatoio, che dava sulle Pentime. Girata la curva, ti trovavi di fronte l’imponenza del seminario col suo portone enorme e le scale di pietra, ma prima ti colpiva il fumo e i profumi di bruciato che venivano dalla “bottega”, uno scavo nella roccia, dove Za’ ‘Ntonia e Carmela vendevano bruscolini e noccioline americane e talvolta castagne: 5 o 10 lire di bruscolini da portare durante la proiezione e si era soddisfatti.
Qualche passo appresso e incontravi la scala del seminario, gigante sospeso sopra le Pentime, altro gigante orrido e pauroso, proibitissimo fra l’altro, difeso da un muro che sembrava fatto apposta perché invece ci si sedesse sopra.
Nel seminario, al pianterreno, c’era il cinema, un enorme scatolone con un pavimento inclinato di legno che finiva davanti ad una vetrata larga ed alta dove c’era il telo per le proiezioni; la vetrata divideva il cinema dall’ingresso del seminario ed era ovviamente chiusa. Dalla parte opposta, alla fine della sala, c’erano due fori da dove si proiettava il film: infatti il proiettore stava in una stanza esterna, altro luogo proibito, con la possibilità di ruotare il proiettore durante l’estate per il cinema all’aperto, l’arena. Questa era il vecchio cortile del seminario che non si usava più e perciò il parroco aveva deciso di usarlo come cinema all’aperto. C’era un grande cancello di ferro poggiato sul muro di cinta, sopra cui erano state sopraelevate delle assi di legno per impedire la visione ai soliti portoghesi, ma con scarsi risultati, visto che almeno i ragazzi salivano sul muro e guardavano il film dagli interstizi del legno. Il cinema per definizione era però quello al chiuso. All’inizio della parete laterale del seminario si vedeva il piccolo spioncino della biglietteria, il regno di Lucia Senzanas, mentre più avanti era stata ricavata una porta per l’uscita, Si entrava dall’arena, passando per una porta posteriore, si salivano due gradini e si trovavano le forche caudine di Antonio il sagrestano a controllare, talvolta bonariamente ed altre no, i biglietti. E finalmente potevi entrare nella sala. Le prime fila erano solo nostre, i ragazzacci, e il divertimento più grande era staccare con le unghie pezzi di sughero dalle pareti insonorizzanti, fin quando ci scoprivano sgridandoci, e allora tutti zitti e calmi; oppure sgranocchiare i “bruscolini” sputando le bucce sulla testa dei malcapitati che stavano davanti. E naturalmente lo spettacolo era condito dalle nostre risate e dai commenti, sia nelle scene cosiddette d’amore che in quelle delle battaglie fra indiani e cowboys in cui ognuno parteggiava per la sua parte. E Lucia dal suo angolino ci diceva inutilmente: “Bambini, bambini, state zitti!” In genere i film venivano dati il sabato e la domenica, ma prima dello spettacolo però, c’era la “prova”, rigorosamente il venerdì o comunque il giorno prima della proiezione: vi assistevamo Michele e in seguito Agostino, mio padre e soprattutto don Battista e spesso anche don Leonida, che, da prete timido e discreto qual era, ogni volta che c’era una scena troppo ardita, si copriva il viso con la mano. Dovete pure sapere che i due, Michele e Agostino, rappresentavano il “reparto nobile” del cinema: a loro il compito di governare la macchina di proiezione, lo scorrimento della pellicola ma soprattutto di eseguire tagli. Infatti, alla “prova”, quando c’era una scena di baci appassionati  fra Amedeo Nazzari e Ivonne Sanson o chiunque altro, don Battista alzava la mano e i due mettevano un foglietto in quel punto della ruota della pellicola, perché si doveva tagliare, mantenendo però lo spezzone tolto che andava di nuovo incollato con l’acetone per la resa delle pizze della pellicola il lunedì: così don Battista salvava il ruolo di cinema “parrocchiale” ed anche il godimento degli ignari spettatori che avrebbero visto i visi degli attori avvicinarsi ma poi di colpo essere distanti, i più scafati con qualche malumore, ma gli altri comunque contenti di quanto avevano con arguzia immaginato.
Terminata la “prova” con grande sollievo di don Battista e qualche foglietto di troppo, la pellicola era pronta, seppur tagliuzzata, per la proiezione del sabato e domenica. E il sabato, ma soprattutto la domenica, c’era il grande spettacolo e spesso il pienone. Come dicevo, si incontrava dapprima Lucia Senzanaz, la bigliettaia, che si lamentava sempre di non aver monetine per il resto e che staccava diligentemente i biglietti con la matrice, immergendo pollice e indice in una spugnetta, ma poi umettando il tutto con la lingua; al che mal gliene incolse quando Antonio Sabatini, apprendista operatore, le fece lo scherzo di far passare un filo di corrente elettrica sul piano che lei strusciava con le dita e facendole prendere ogni volta una piccola scossa, senza che la poveretta potesse capacitarsi della cosa. Le sue frasi più famose si riducevano ad una sola: “Bambini, state zitti”, anche se, a mio ricordo, non ha mai avuto successo. Poi incontravi Antonio il sagrestano, che stava all’ingresso a staccare i biglietti per lo più bofonchiando frasi incomprensibili che si concludevano tutte con “Vagliù, iate ‘nannz senza fa’ muina”. Dall’altro lato della porta stava Sabbetta, sua moglie, che lo aiutava quando c’era ressa, ferma come un carabiniere e nessuno, dico nessuno, era mai sfuggito a quel controllo. Finito il quale, Antonio girava la sedia che lo aveva accolto con poca benevolenza e si godeva il film sporgendosi oltre uno spunzone di muro che delimitava l’ingresso; Sabbetta, invece, aveva il suo bravo posto da dove guardava lo spettacolo ed ogni tanto si rivolgeva al marito: “Anto’, ci vedi bene?” Nella sala, poi, c’era, come si usava dire con eleganza, la maschera o meglio il factotum, Gianbattista, mio padre, che aveva il compito di tenere a bada il chiasso, specie di noi ragazzi; era pure quello che attaccava i manifesti in piazza facendo la colla con quindici lire di farina, portava le pizze della pellicola al bivio per le rese anche con acqua e vento, e poi sistemava le sedie ripiegabili nell’arena, quando d’estate il cinema era all’aperto, e le riponeva dopo la proiezione domenicale. Ad aiutarlo, talvolta, c’era Mario, rosso di capelli e dal soprannome atroce, Scacat, che era una pasta d’uomo sempre disponibile, e che si innervosiva solo quando lo chiamavi per soprannome; allora per consolarlo gli si diceva: “Non è il peggiore, pensa a chi chiamano Senzacul o Cul’pan o Magnaoss”, ma la cosa non credo lo consolasse molto.
A sera, finito il film, la gente sfollava via commentando, chi citando “Grandhotel”, chi ripromettendosi “un quarto e una gassosa” da Gargano per dimenticare la fatica e la miseria con quella gratificazione minima di storie che forse si desiderava qualche volta vivere, magari con meno battaglie e qualche bacio in più.

 


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