mercoledì 9 maggio 2018

IL PRIMO GIORNO di Peppe Murro

Non che non ce la facesse, in fondo era sì, magro, ma tutta forza e giovinezza: fosse stato alto come il fratello sarebbe stato davvero quello che si dice un fusto… Era piccolino, però, più o meno la stessa statura della madre, bassina e magrissima pure lei.
Eppure quella aveva una voce che si sentiva fino alla piazza: “sbrichet a camminà; movete ca è tard..cammina, sfaticat”.
Sì, ce la faceva ad andare più veloce, ma non ne aveva nessuna voglia: d’altronde quale ragazzo sarebbe stato contento di lasciare i giochi per andare a lavorare ?!
La madre, però, era stata irremovibile: “viste ca de legg e scriv nen te ne tè, almen te mpare nu mestier” ed aveva pregato il calzolaio di prenderlo come garzone.
“Cammina, movete”, il grido di sua madre dal basso della discesa gli diede quasi un’altra spinta.
 “E statt attent a nen cadì”. No, non sarebbe scivolato su quella salita, anche se le pietre erano lisce di pioggia: aveva buone scarpe, fatte di pelle indurita dal non avere scarpe.
Arrivò davanti ai gradini che portavano alla bottega di Ntonie spavent, il calzolaio, si voltò indietro: la madre era una cosa piccina in fondo alla discesa, una cosa che continuava a gesticolare in maniera terribile.
Forse sospirò, guardò davanti a sé e prese a salire quelle scale sulla sinistra con un certo timore: lì abitavano i signori e bisognava mostrare rispetto. Lui però doveva andare dal calzolaio, si drizzò allora sulla schiena, salì due gradini e disse con voce stentorea: “Bongiorn”.
Una vecchia monumentale spostò la tenda, gli fece quasi un sorriso: “Entra; tu sì Pepp gliu zingareglie, è ver?”. Fece di sì con la testa ed entrò: la prima cosa che lo colpì fu il profumo dei fagioli che cuocevano in una pignata ai lati del camino. Girò la testa e vide due occhi bonari che lo guardavano da sotto un ciuffo di capelli bianchi.
Il calzolaio era seduto su una panca bassa di fronte a un piccolo tavolo pieno di arnesi, fatto con dei bordi perché non cadessero. “Mama m’ha fatt venì”, disse come per scusarsi di stare lì.
Il vecchio sorrise, lo squadrò per bene e poi: “Sper ca te ne tè de te mparà…sta qua è meglie de nen fa nient”. A quelle parole Peppe pensò: “Ca le dice tu, pecché te si scurdate come è beglie giucà a pallone!”, ma non fiatò.
“Vabbè”, continuava il vecchio,” je nte garantiscie de te pagà, ma nu piatt de minestra pe te qui nen mancherà mai. Adduman po’ cumencià.”
Non gli riuscì di sapere chi o cosa gli diede tanto coraggio, ma in un lampo di geniale facciatosta disse: “Zi mastr, vabbè ca cumencie addumane, ma viste ca oggie so’ venute, pozz restà a magnà?”

1 commento:

  1. Una vena sottilmente umoristica - nel finale - che non ti conoscevo, Peppe. Molto bello il racconto, di gusto paesano che ti proietta a quei tempi lontani esistenti ormai solo nella nostra memoria.
    Un invito a tutti i lettori a inviare a Cronache Aquinati racconti di tal genere... racconti, appunto, della memoria.

    RispondiElimina