mercoledì 22 marzo 2017

LE RANE di Paolo Secondini



Avevo quindici anni quando l’amico, più grande di me, un giorno mi chiese – lo ricordo assai bene – se volevo andare con lui giù al pantano a sentire le rane gracidare.
La proposta mi piacque. Accettai.
C’inoltrammo nella campagna per una stradina bianca e polverosa che, inondata dal sole, pareva brillasse come cosparsa qua e là di grani di sale.
Nel frattempo noi si parlava di scuola, di compiti a casa, di interrogazioni, di questo e quell’altro professore. Frequentavamo l’Istituto Magistrale: stesso corso, stessa classe. Lui aveva ripetuto due volte: per questo motivo si trovava con me ancora in seconda.
Discorsi oziosi, i nostri, fatti, mentre si andava, per rendere meno noioso il tragitto. Il pantano era distante dal paese.
Dopo qualche tempo, a una svolta della stradina ci ritrovammo in cima a una scarpata – verde d’erba, leggermente ondulata, con alberi da frutto, credo meli cotogni e gelsi: se ne vedevano spesso nelle nostre campagne (oggi quasi scomparsi) –, che scendemmo a scavezzacollo come due matti, rischiando di ruzzolare e farci male.
Giungemmo presso una distesa d’acqua stagnante, da cui saliva un gracidio monotono e lamentoso, che a momenti cresceva d’intensità per affievolirsi di colpo, per poi crescere ancora, per affievolirsi di nuovo e così via.
Di rane, sebbene volgessi la testa intorno, non riuscivo a vederne neppure una, ne sentivo soltanto il tonfo nell’acqua man mano che camminavamo lungo la sponda del pantano. Ma il mio amico – a quanto mi parve – era capace di scovarle fra l’erba e le canne, di cui vi era una grande abbondanza.
A un tratto lo vidi trarre di tasca un groviglio di ferro filato, districarlo velocemente e cingerlo attorno alla vita a mo’ di cintura. Lì per lì non compresi che cosa volesse farne. Mi fu chiaro più tardi allorché, afferrata una rana (dopo avere tuffato la mano nell’acqua), la infilò ancor viva, per la zampetta, nel filo di ferro.
Dopo un po’ altre rane subirono identica sorte.
Che orrore!
Che pena!
Non dissi – tutto il tempo che catturò i piccoli anfibi per infilzarli e stringerli insieme: perle animate di una ben triste collana – una sola parola, angosciato da quella visione.
Ritornammo al paese dopo un bel pezzo, io ancora in silenzio, frastornato; lui, al contrario, ciarliero e felice, col suo ricco bottino gracidante.
Allora mi parve crudeltà, la sua: una grande, orribile crudeltà…
Ma molti anni dopo, riandando con la mente a quel giorno, mi resi conto che era soltanto una grande e orribile fame quella del mio amico, figlio di povera gente. E più che lui – pensai – crudele, sicuramente, era il destino.

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